martedì 29 ottobre 2013

Il decalogo delle mie libertà







Siccome oggi ho un mal di testa tale che se qualcuno al piano terra sussurrasse una sillaba mi si ritroverebbe accucciata in un angolo a dondolare avanti e indietro con le mani sopra le orecchie, e sappiamo tutti benissimo perché ho questo mal di testa, mi sono chiesta come mai io, donna, non possa  ritenermi libera di sentirmi tale né di vivere nel modo più appropriato questa meravigliosa condizione.
Sembra che le donne siano ormai considerate pari agli uomini, in quanto a diritti e doveri, ma, grazie alla Storia, alla Chiesa, alle precedenti generazioni di donne che hanno accettato il Grande Inganno e all’attuale generazione, convinta che “vada bene così”, la realtà è che siamo ancora completamente soggiogate  -se non proprio nei confronti dell’uomo, perlomeno nei confronti dell’immagine che l’uomo ha di noi.
Perché, per avere un minimo di rispetto sociale, credibilità in famiglia e autorità lavorativa, una donna dei giorni nostri deve per forza ricorrere all’aspetto fisico e nascondere i “sintomi” della propria donnità?
Basta. Come Daniel Pennac ha stilato l’elenco dei diritti del lettore, io qui scrivo il decalogo delle libertà che sceglierei in quanto donna, se potessi. E poi vediamo i corollari.

1.     Libertà di amare chi voglio, senza essere etichettata come lesbica, arrampicatrice sociale, puttana.
2.     Libertà di scegliere quale lavoro fare nella vita, senza essere etichettata come lesbica, arrampicatrice sociale, puttana!
3.     Libertà di gestire l’interno e l’esterno del mio corpo come meglio credo, senza… (vedi sopra.)
4.     Libertà di dire ciò che voglio, senza offendere nessuno, beninteso, e vedi sopra.
5.     Libertà di andare dove mi pare, a qualsiasi ora del giorno e della notte, senza paura e vedi sopra.
6.     Libertà di avere o di non avere istinto materno in qualsiasi momento della mia vita, con o senza soldi in tasca, con o senza un partner, vedi sopra.
7.     Libertà di esprimere i miei sentimenti come meglio credo, quando ne ho bisogno, senza essere compatita perché mestruata, zitella inacidita, puttana.
8.     Libertà di non accettare maschilismi, femminismi e tutti quegli estrem-ismi che rovinano il bello che c’è nel mondo.
9.     Libertà di morire nel modo in cui deciderò, quando sarà ora, e se avrò avuto la fortuna di arrivarci deliberatamente e non per cause naturali. Questo vale anche per gli uomini, direi.
10. Libertà di sperare che Gesù, Shakespeare e Paul McCartney fossero donne.

Ammetto che alcuni di questi diritti che io mi arrogo suonano strani (tipo…l’ultimo), ma io la vedo così. Ci sarebbero altre libertà che avrei voluto aggiungere. Per esempio: libertà, per una mamma, di restare seduta a tavola per un’intera serata anziché dover correre dietro ai figli mentre il marito chiacchiera con gli altri papà. Oppure: libertà di dire “forte quella donna!” invece di “quella donna ha le palle”.
I maschi mi risponderanno che possiedo già queste libertà, che nessuno mi punta una pistola alla tempia per obbligarmi a sposare un ricco uomo maturo prescelto dalla mia famiglia. A parte il fatto che questo avviene ancora in alcuni paesi, ma comunque… in un certo senso hanno ragione loro, muovendomi l’obiezione. Quindi, termino l’elenco con il punto numero 11: Libertà di considerarsi libere nonostante l’influenza dei giudizi sociali, dei media, della cultura, della religione, della famiglia, degli uomini stupidi e delle donne che vogliono ignorare.


Essere donne non dipende certamente dall’avere il ciclo ogni mese, ma, dal momento che ce l’ho, io vorrei solo essere libera di dispiacermene o di gioirne, se mi gira, senza sentirmi dare della pazza emotiva instabile e maniaco-depressiva soltanto per aver sclerato con un collega. Ci sono momenti in cui sclero per molto meno di un tampax, e vi assicuro che non lo faccio perché sono donna, ma semplicemente perché ho uno dei peggiori caratteri dell’universo, e allora sì, che gli uomini che conosco dovrebbero augurarsi di non trovarsi sulla mia strada. 

martedì 22 ottobre 2013

Elucubrazione sulla bellezza




Qualche anno fa andava in onda un telefilm sulla chirurgia estetica i cui episodi iniziavano, ogni volta, così:”Mi dica cosa non le piace di se stesso” o “di se stessa.”
Ed è strano come, quasi sempre, i pazienti non rispondessero:”Il mio naso. Il mio seno. Il mio addome…”, bensì:”La mia stupidità. La mia età. Il mio passato…”
Carattere e tempo, ossia genetica e fatti, traumi, errori, ai quali il bisturi non può certamente rimediare. Chiaro, direte voi, se fosse così semplice saremmo tutti dal chirurgo estetico a farci rimodellare il cervello, e non qui, davanti al computer, a leggere una rubrica che, oltretutto, non alleggerisce i problemi.
Eh, lo so. Piacersi è una sfida continua. Il nostro corpo ci impone manutenzione e, nel migliore dei casi, un po’ di ginnastica, una spolverata di quei pigmenti tossici che chiamano trucco… E comunque, davanti allo specchio, non ci si ritiene mai “abbastanza”. Non voglio scatenare psicosi, ma il “dentro” è ancora peggio: nonostante la fede, la forza che si cerca di farsi, le illusioni, lo yoga e tante buone parole… siamo sempre insoddisfatti. Un parte della nostra anima non ci piace mai, forse perché non la conosciamo veramente, o perché, una volta compresala, vi auto-indulgiamo.
Credo non sia un caso se, infatti, sono più donne che uomini a rivolgersi ai chirurghi. E’ come se, oltre ad essere circondate da stimoli visivi che ci propongono –e propongono agli uomini- modelli di bellezza irraggiungibili senza la punturina di botox, noi donne fossimo anche un po’ più esigenti nei confronti di noi stesse. Fuori come dentro, non ricerchiamo che la perfezione: questo fa paura, soprattutto agli uomini.

Una donna vive nella costante pressione di aspettative esagerate, che un tempo la volevano ottima moglie e madre, e casalinga perfetta, full-time, efficiente. Ora, a queste aspettative si sono aggiunte quelle che riguardano gli studi, il lavoro, l’essere multitasking.
Multitasking un corno!!!
Non siamo passeggini a cui applicare grosse sacche di latte e di calore: quelli sono i canguri e su di loro non gravano aspettative da premio Nobel. Il nostro corpo non è eterno, indistruttibile ed infinitamente funzionale. Non siamo una scatola suddivisa in compartimenti stagni –mani per scrivere, capelli per risplendere, gambe per andare… ma solo sui tacchi.  In noi, tutto è collegato, gli organi, il sangue, le cellule… L’interno è separato dall’esterno soltanto da un sottile strato di pelle; le nostre emozioni sono a stento trattenute dal colore del viso; la paura trapela dallo sguardo.
Complicato, vero? Il nostro io è una cosa davvero spettacolare, non inferiore a tutte le altre manifestazioni della natura, nei suoi colori accesi e nelle sue armonie indescrivibili.
Come si fa a rinunciare alla bellezza?
Credo sia una cosa a cui le persone aspireranno sempre, così come ricercheremo il piacere.
E la vita è così corta, che non credo sia giusto lasciarsi sfuggire le occasioni di stare bene.
Esteta, edonista… se vi state chiedendo se oggi mi sono fatta una canna, sappiate che il mio problema è molto più grave: sono così di natura.


martedì 15 ottobre 2013

L'importanza di scegliersi un nome








Avete notato come, di recente, vada tanto di moda la bottiglia o il barattolo con il nome stampato sull’etichetta? Mi riferisco alla confezione di quella bevanda nerastra che fa digerire e della nota crema di nocciole di cui ho fatto tranquillamente il nome nel post precedente!
In particolare, mi ha colpito la pubblicità del secondo prodotto: è vero, nel corso della vita veniamo chiamati in tantissimi modi, e ognuno sembra connotarci in qualcosa di diverso da quello che eravamo appena poco prima.
Io, per esempio, sono nata Paola; la famiglia mi ha chiamata Paoletta o Paolotta (a seconda del peso raggiunto), e a volte anche Paqla (errore di mia mamma, che non sa scrivere con il cell…); per gli amici sono stata Pola e Piz, ma spesso anche Stronza e Sbronza; con “lui” sono Amore… e nei momenti critici sono AMORE, ma cazzo!!!
A scuola e nei lavori più formali mi hanno apostrofato come Peretti, Peretto e Barbara (!).
I bambini e i ragazzi di cui sono stata insegnante mi hanno riconosciuta come maestra, prof, Paolona, Paolina, Lauramammaehi… ed altri epiteti che non riporto perché ho rispetto per me stessa.
Quanti nomi possiamo avere? E quanti ruoli ricopriamo mentre esistiamo? Non saranno forse troppi? Non si rischia di perdersi un po’ in mezzo a questa selva di doveri e di richiami?
Una volta un prete mi disse che non dovevo dare soprannomi ai miei amici o alla mia persona, perché il nome di battesimo è bello, è quello che i genitori hanno scelto per noi e non va alterato. Vorrei sapere se anche Crocifissa e Pierubaldo la pensano così.
Certo, nemmeno a me fa piacere quando mi punzecchiano: Paolotta, Paolona… Ma, se quel nomignolo è ciò che mi si addice in un determinato momento della mia vita, che ci posso fare? Me lo tengo e vado avanti.
Sulla carta d’identità scrivono chi siamo in base a un’osservazione oggettiva dei dati –in teoria: nome Paola, stato nubile, professione studente, altezza 160 cm, segni particolari nessuno. Bè, posso dirvi con sicurezza che solo una di queste cose è vera, e si tratta di un numero.
Ma come?, mi sentirò chiedere. Non sei Paola, non sei nubile?
Sono Paola al battesimo: peccato che sia diventata atea. Sono nubile ma convivo: per me è come un matrimonio. Professione: per lo Stato italiano sono disoccupata, perché non guadagno abbastanza per passare di categoria. Pour moi sono insegnante, giornalista, hostess di fiera… e scrittrice ancora in ostaggio nel corpo di una blogger!
Infine, non ho mai sopportato l’ultima dicitura della carta d’identità: i segni particolari. Lo so che la signora dell’anagrafe non ha il tempo di starti a guardare in faccia ed esplorare i tuoi mondi nascosti, ma a me divertirebbe trovare almeno una piccola cosa nel volto di ogni persona: uno sguardo, una cicatrice… Se lavorassi in quell’ufficio, scriverei: “mento sfuggente, tipico del criminale”. “Occhi da incantatore di serpenti”. “Lentiggini come se piovesse”. “Dentatura invidiabile”. “Sopracciglia da sfoltire”. “Naso indimenticabile”.

Non sarebbe bello poter avere davvero tutte quelle identità? Sentirle proprie, non ripudiarle, tuffarvisi, come in effetti facciamo nella realtà fattuale della vita di tutti i giorni? In fondo, i genitori, insieme al nome, ci hanno dato anche tutte le altre possibilità di essere. Sono quasi certa che poi spetti a noi riconoscerci in ognuna di esse, con malleabilità ed esuberanza. Non siamo creature monolitiche: siamo personaggi che si evolvono e che devono trovare la forza di inserirsi nella trama, al proprio posto, con un proprio nome. Alla fine, siamo noi che scegliamo chi essere.

Paqla, Piz, Peretto… non ha importanza. Una borsa di Buberry resta una splendida borsa, anche se non ha lo stemma che la denota come tale. E’ una forma di libertà estrema, scegliersi il nome da sé, ma lo ha fatto anche Pippi, e non per questo l’amiamo di meno… anzi. Pippi, Pippi, Pippi: che nome! Fa un po’ ridere… così canta la canzone, no? Ma voi riderete per quello che farò

martedì 8 ottobre 2013

In tristezza e in verità


Post per la naturale bellezza di tutte le donne e di tutti gli uomini 


Piove.
E subito altre parole mi vengono un mente:
Piove su le tue ciglia nere
sì che par tu pianga
ma di piacere…
Quante ne sapeva, quel fascinoso poeta che si faceva chiamare D’Annunzio! Lui, sì, aveva capito quanto un uomo o una donna possano diventar selvaggi e naturali in un giorno di pioggia.
Come questo.
Tranquilli, non mi troverete in un supermarket a copulare col cassiere sul nastro che trasporta gli alimenti, né a danzare in giardino mentre cerco di bere le gocce che cadono dai rami degli alberi (peccato però: questa seconda opzione non mi dispiaceva.)
Dico solo che oggi piove, e la pioggia tira fuori una tristezza viscerale, carnale… roba che se avessi qui un pacchetto di sigarette, una bottiglia di vodka o un barattolo di Nutella  non esiterei a terminarli in un battibaleno. Nota: dopo aver affermato ciò, spero che nessuno, tra le persone che stanno pensando di assumermi in questo momento, legga il mio blog.
Se fosse fine luglio e stesse piovendo, lo accetterei con meno psicodrammi. Ma è ottobre, e piove, e l’unica cosa da fare è ascoltare la pioggia.
Ergo, lasciarsi prendere dalla tristezza.
E’ così bello, essere tristi e non deprimersi. E’ un po’ come essere poveri, ma non per strada. Sai di arrancare, sai che stasera, nella doccia, dovrai insaponarti tenendo l’acqua “chiusa”, ma anche per questo mese hai un tetto sopra la testa e puoi permetterti di guardare la tenda –senza scostarla- e ascoltare. Ascoltare il rumore metallico delle gocce che pliccano sulla ringhiera del balcone, quello sordo e marrone –tuf, tuf- delle gocciolone che atterrano nei vasi del basilico, quello scrosciante delle pozzanghere su cui passano le automobili (e lì speri solo due cose: o che l’auto si sia salvata dall’acquaplaning, o che abbia prodotto un’onda tale da far la doccia a un passante.)
Dopo un po’, i vari sting sting e tuf si perdono in uno sguardo più intimo e ci si ritrova ad ascoltare se stessi. All’inizio, la voce dentro la testa è calma e quasi impercettibile; poi la confusione aumenta e…ci si mette a piangere: non è mai facile starsi ad ascoltare.
Quando mi capita, per me l’unica soluzione è piangere, piangere, piangere davvero con tutte le mie forze. Anzi, mi metto pure davanti allo specchio, così mi compatisco ancora di più. Singhiozzo (perché un singhiozzo ne chiama altri dieci, cento…), e dopo circa un quarto d’ora mi sento  molto stupida e inizio a farmi la pulizia del viso. Ecco come un momento di profonda riflessione interiore si tramuta in un esercizio estetico fine a se stesso…

Deprimersi non è la reazione migliore a questo frangente storico. Ricercare la bellezza sì. Essere naturali e genuini, sì. Ascoltare il proprio IO, comprenderlo, scatenarlo –togliergli le catene- …sì. Non so se una buona strategia consista nello spostarsi all'altro capo del mondo. Prima o poi, pioverà anche a Roma, a Barcellona, in America. E di nuovo saremo presi da quella suprema tristezza di noi, e dovremo fare i conti con quella persona che siamo, che conosciamo così poco, che passiamo troppo spesso sotto silenzio. La pioggia è sempre pioggia, la natura è sempre natura e noi siamo sempre noi: scoprirlo è traumatico e ci inchioda alla nuda terra. Eppure ci avvicina tutti in un virente bosco selvaggio, dove non c’è quasi spazio per il cattivo umore, perché la bellezza della vita reale trasuda da ogni cosa e ci rende tutti esattamente come dovremmo essere. Veri.


martedì 1 ottobre 2013

Illusioni & co.




Il cuore ammette dubbi? Il cervello ci aiuta a chiarirli?




Tra qualche mese mi sposo, e dovrei stare a dieta.
Non che le due cose siano per forza connesse (forse si perde solo l’appetito realizzando di essere sulla via della prigione), ma a quanto pare i vestiti bianchi li possono indossare solo le donne fatte a palo e non quelle a clessidra.
E io che credevo che il bianco simboleggiasse la purezza! Invece, è chiaro come il sole che rappresenta il raggiungimento del decimo chilo perso e la chiusura del bottone più stretto –ecco perché gli sposi non toccano cibo al pranzo di nozze: rischiano l’esplosione a raffica delle tiratissime file di bottoni che, per un giorno, li fanno sembrare smilzi come modelli.
Sinceramente, me ne frego della smilzezza. Ognuno ha il corpo che ha, ed è per questo che mi ritrovo a dire: Dovrei stare a dieta… Per una che dedica due o tre ore al giorno alla cucina, il condizionale –quando si parla di dieta- è d’obbligo. Da qui, un pensiero: quante altre cose della mia vita sottopongo all’indulgenza di quel modo verbale? Lo fanno anche gli altri? E quand’è che ne abbiamo il diritto e quando, invece, è soltanto una scusa per non fare, o per fare troppo?
L’architetto sexy (alias, presto sposo strizzato in un completo skinny) mi ricorda sempre che non dovrei stare ad ascoltare per più di dieci minuti al giorno discorsi negativi. Pare l’abbi aletto da qualche parte, e forse ha ragione… Ma la vita è piena di negatività e lamentele,; come si fa a sottrarre le orecchie a… al mondo?? Eppure dovrei farlo. E lo fare, se… se solo non…
Eccoci qui. Lo farei, se… Ho idea che sia proprio quel SE che ci frega. L’ipotesi.
Noi donne passiamo tutto il nostro tempo a ipotizzare situazioni, messaggi subliminali, scenari paralleli che non sono realistici, ma che secondo noi avrebbero potuto essere… se solo ci fossimo comportate in altri mille modi, tranne quello in cui invece ci siamo comportate. Come per il peso, io dico: siamo così. E’ inutile che una ragazza dal bacino largo un metro e mezzo cerchi di entrare in un jeans taglia 40, anche se ormai non ha più ciccia sulle ossa. E’ inutile che una donna s’illuda di poter acquistare un abito da sposa, se li fabbricano solo per i manichini da esposizione –e infatti… il mio vestito non sarà esattamente candido, né da mannequin.
E’ inutile anche cercare di convincere una donna innamorata che si sta facendo del male, se si è messa in fissa con un uomo: essa non si accorgerà del dolore nemmeno se lui dovesse saltarle a piè pari sui mignoli dei piedi. Però è altrettanto inutile accanirsi su una relazione che sta morendo, se ne abbiamo il vago presentimento. Perché, se ne abbiamo il vago presentimento, non significa che potrebbe accadere: significa che sta accadendo. Purtroppo, la vita è un dato di fatto, ma non è fatta di dati, quindi noi la crediamo soggetta ad interpretazione per il semplice motivo che, questi fatti, in mano non li abbiamo, non sono a portata d’occhi, non concretamente. E ci ritroviamo ad arrovellarci su qualsiasi cosa accada, invece di leggere la realtà, e agire di conseguenza.
Una volta t’insegnavano il senso del dovere,il concetto di potere, la necessità di volere. Oggi tutto è un dovrei, ma più tardi; potrei, ma non ne ho voglia; vorrei, ma è un rischio… L’ipotesi di quel che accadrebbe se riuscissimo a vivere appieno la nostra esistenza appare ai miei occhi un sogno spaventoso, intoccabile -come scriveva Flaubert, “non si devono toccare gli idoli: la doratura resta sulle mani.” Eppure, non vedo in quale altro modo si possa vivere, se non insozzandosi le mani d’oro, di polvere, di farina, di matita temperata… Tutte cose reali, sulle quali non c’è bisogno di immaginare nulla.  Certo, nei rapporti non è sempre così facile individuare ciò che è vero e ciò che sarebbe meglio evitare; d’altro canto io sono abbastanza sicura che il nostro cuore sia bravissimo a capire certe cose e che non ci tradirebbe mai. Anzi, che non ci tradisce. All’indicativo.


Che bella para ho trascritto oggi, direttamente dal retro del mio cervelletto striminzito! Lui, purtroppo per me, non è mai a dieta e non smette un attimo di macinare, macinare… Se si fermasse, sarebbe un guaio: con una simile ipotesi di reato, mi becco almeno almeno cinque anni di galera. Senza condizionale.