venerdì 9 ottobre 2015

Pompa nelle casse

Ovvero: la parola preferita del cuore è...


Come tanti di voi sanno, è da quando ero alta un metro e una caramella che desidero fare la scrittrice. Non solo: l’ho proprio deciso, sentendolo nella mia natura, ed ora ho la prospettiva, in lontananza, di poter dare vita alla mia vocazione.
Ancora non vedo se si tratti di un miraggio o di qualcosa di reale: so solo che gli occhi non sono affidabili e che credo di più in ciò che sento.

La prima volta che ho partecipato a un concorso letterario nazionale è stato sette anni fa: si concorreva con un romanzo dedicato alle donne ed io vi passai sopra, letteralmente, notti e giorni travagliati, perché nel frattempo stavo affrontando un passaggio di indirizzo all’università. Forse è stato in quei momenti che mi sono resa conto davvero di quanto penosa possa essere la vita emotiva e neurologica di chi vuole scrivere! Inoltre, com’era scontato, non vinsi il concorso. La mia scrittura era così acerba che sarebbe stato più gradevole versarsi dell’aceto negli occhi che leggere dieci pagine del mio romanzo.
Però fu il primo.
Dopo quella storia, ne vennero tante altre; tanti concorsi mi hanno tenuta sveglia quando mi sembrava che l’intero universo stesse russando alle mie spalle, e tantissime volte (quasi il cento per cento) quello che scrivevo non era abbastanza per essere considerato, giudicato, letto. La pubblicazione era una chimera. Ormai, speravo solo che mi venisse data una risposta, come i cani che scodinzolano al semplice sentore della presenza del padrone. (Caspita, mi sono appena paragonata a un cane; dovrei parlarne con qualcuno, n.d.a.)
Ci sono stati momenti di grandissima pena, momenti in cui credevo di poter accettare le critiche mentre mi ritrovavo, poi, a piangere di nascosto; in altri casi, il silenzio era così chiaro e semplice da non darmi nemmeno le lacrime in cambio. Ma non c’è mai stato sconforto. Lo giuro. Ogni critica si trasformava presto in un: ancora. Ogni porta chiusa diventava un: comunque esiste una porta. Come per un amore che non può smettere di bruciare, il mio cuore mi diceva sempre: ancora.
E così è stato. Ho provato di nuov, di nuovo mi sono messa in fila alle Poste, tra le signore che si lamentavano dell’attesa e i loro amici del 1914 che si azzardavano a sbirciare (ancora) quelle caviglie da ragazze amanti del nylon –un materiale sexy, tutto sommato. Ho passato tante ore ad immaginare le loro storie, per poi essere improvvisamente risvegliata dalla chiamata del mio numero: toccava a me –bollettino, pesata, timbro… A chi lo mandiamo, stavolta?
L’uomo delle poste mi diceva sempre: se vinci, ne voglio un po’… Mi aiutava a bomba con i bollettini scritti in piccolo!

Ecco, infine. Qualcuno mi ha detto sì. Possiamo lavorarci.

Se tuo figlio vuole fare lo scrittore, cerca di dissuaderlo. Usa pure lusinghe e minacce d’ogni sorta; se persevera, mandalo da me: cercherò di dissuaderlo con tutti i mezzi a mia disposizione, compresi il sequestro e il digiuno (tanto ci sarebbe passato lo stesso). Se tornerà ancora più convinto, mandalo di nuovo da me: brinderemo insieme al nostro triste destino.
Meglio di una guerra, di una malattia, di un lavoro pesante: certo.
Una lotta continua, una patologia logorante, un lavoro durissimo: certo, pure questo è scrivere.
Esattamente come amare.
In entrambi i casi, però, quel masochista del cuore ignora il dolore e ripete una semplice parola: ancora.
Un disco rotto, un allenatore senza pietà, un coro da stadio, un marito insistente, il fraseggio di una canzone, il battito regolare di quel muscolo involontario: se siete innamorati, che si tratti di un uomo, di una donna o di una passione, una sola parola pompa nelle casse, ora e sempre.
AN-CO-RA.
Auguri, se avete deciso di ignorarla.

Auguri, se avete deciso di ascoltarla.

giovedì 1 ottobre 2015

Ma chi se lo aspettava!

Ovvero: a colloquio con il nostro adolescente personale. I




 nostri genitori ci vedono sempre come se avessimo al massimo quindici anni.
Ora che mi appresso al doppio di quella cifra, mi viene da chiedermi se la “me” adolescente sarebbe contenta di quello che le racconterebbe la “me” adulta. Se mai dovessi incontrare una ragazzina che sperava in una carriera rapida e in una vita da spirito libero, come potrei comunicarle che i suoi piani sono leggermente cambiati, nel corso degli anni?
Mi toccherebbe farla sedere ed avvertirla che la aspetta una dura gavetta; oltretutto, con che coraggio le direi che si è sposata con il fidanzato delle medie, dopo tanto cercare l’uomo perfetto?
Forse lei si metterebbe seduta e aspetterebbe che queste cose succedano.
Ma così non diventerei la persona di adesso.
Tutto quello che ho fatto, anche se lì per lì non è servito a molto, mi ha portata fino a qui. E se la mia adolescente non si fosse infatuata di tanti e tanti, probabilmente non avrei mai capito chi era il solo ed unico.
Certo, quella che immaginavo come una passeggiata tra fiori e coniglietti si è trasformata in un percorso arzigogolato, sicuramente in pendenza, con uno zaino bello carico sulle spalle, ma anche pieno di sorprese meravigliose, e se, ogni tanto, vien voglia di mettersi seduti a dire parole volgari contro tutto e tutti, la famiglia arriva da dietro e spinge avanti. Magari con confusione, qualche lavata di capo, una schiscetta esagerata…
Eppure funziona. Solo che per una sciocchina di quindici anni è un segreto, ed un mistero, come si faccia ad arrivare a trent’anni. Ed è giusto così. Una pagina alla volta, facendo ipotesi sul possibile colpevole. E alla fine, magari, la soluzione è una vera rivelazione.
“Ma chi se lo aspettava!”, verrebbe da dire.


E voi? Se incontraste il vostro “io” adolescente, che cosa gli raccontereste? 

martedì 22 settembre 2015

Moglie felice, vita felice





Moglie felice, vita felice.
Per certi versi, odio questo modo di dire.
Trasmette l’idea che tutte le donne con la fede al dito abbiano, come unico scopo della vita, quello di rendere un inferno l’esistenza dei mariti. E loro, i mariti? Non figurano neanche. Me li immagino davanti a un barbechiù, a darsi di gomito e a complimentarsi perché sono riusciti a chiudere, per cinque minuti, la bocca di una moglie capricciosa.
D’altra parte, ditemi voi se non è vero che una donna scontenta può logorarti dentro! In fondo, noi mogli non abbiamo che poche, semplici esigenze, tra cui l’attenzione totale del partner, la sua fiducia, l’assoluta abnegazione verso il nostro modesto io, nonché la venerazione, adorazione, idolatria ed il timore dello stesso da parte del fortunato consorte. Che ci vorrà mai?
In fine, non pretendiamo mica di cambiare la mente di un uomo, ma solo di guidarla con grazia e gentilezza stilnovistica attraverso gli impervi meandri del Fato, con il riconoscimento immediato e indiscusso di questo nostro ruolo da parte del marito.
Non chiediamo certo di chiacchierare con lui come faremmo con le nostre amichette, né di farci dipingere le unghie dei piedi da colui che ci ha viste in abito da sposa, e nemmeno che ci venga preparata la cena quando torniamo tardi. Chiediamo solo comprensione, sensibilità, se possibile lettura del pensiero; poi massaggi ai piedi, e, per quanto riguarda la cena, bè… quella sì, meglio trovarla pronta, altrimenti –passatemi il francesismo- per lui sono cazzi.
Ecco. Moglie felice, vita felice. E facile, soprattutto.

Fin qui ho fatto la burlona, la mattacchiona, per dire.
Ma, vecchie mie, il guaio è che ci sono donne per cui sarebbe sufficiente avere un marito che non sia agli arresti domiciliari, che non le meni o anche solo che si lavi ogni tot giorni. Ora, il marito-angelo-dio del sesso-colf e diario segreto de noantre non esiste, ma cerchiamo di non abbassare troppo gli standard, d’accordo? Vogliamoci bene. Meritiamo di più.
Dobbiamo crederci noi per prime.
Dopo, la cosa viene da sé: se ci crediamo noi, sarà semplicissimo trasmettere il concetto al Renzo della situazione. Con i giusti presupposti, crederebbe a qualsiasi cosa.
La sapete quella del carro di buoi, no?




martedì 15 settembre 2015

In giro da sole





Al giorno d’oggi, si sa, una donna è libera di andarsene in giro bella bella anche da sola. Non c’è più bisogno che il padre, il marito o un fratello l’accompagnino ovunque controllandone la moralità e la sicurezza. Ora, una donna adulta va alla scoperta del mondo quando e come desidera, comportandosi nel modo che ritiene più idoneo alla propria natura, e di questo dobbiamo ringraziare le prime signore che sono scappate di nascosto dalla loro camera, o le pioniere dei viaggi in tenuta da uomo.
Il coraggio delle nostre audaci antenate, però, sfuma miseramente nel buio delle odierne metropolitane, delle stazioni e di tutti quei luoghi ufficialmente aperti alle donne, ma troppo pericolosi perché queste possano usufruirne in pienezza.
Inutile cercare scuse: andare in giro da sole fa scago, soprattutto di sera, non parliamone di notte. Tocca camminare come se si stesse gareggiando alla gara di marcia delle Olimpiadi, slogandosi il collo per controllare che nessuno ti segua, e non appena si sentono passi dietro di sé il cuore –glum!- affonda fino alle tube per la paura.
E’ un vero peccato che, attualmente, una donna sia libera di portare pantaloni e gonne corte, di visitare posti lontani, di avere storie con chi le pare, ma… sia ancora bloccata dalla paura. Ci facciamo tutte un bel corso di autodifesa? E, chi può, si compri il ciondolo con l’allarme. Se qualcuno ha lottato per la nostra libertà di circolazione, è perché pensava che potessimo farcela.
Enne-bi: parole d’ordine, cautela, prudenza e buon senso. Di quello, noi donne ne abbiamo a bizzeffe.


martedì 8 settembre 2015

SEX AND THE PAESE- Scandali, inciuci ed altre simili amenità



Non so se vi ho detto, in passato, quanto il mio paese si nutra di scandali.
Ebbene sì, è così: dopo qualche mese di calma piatta (in cui è ovvio che il patatrac stava solo covando), in piazza si vedono capannelli di persone che confabulano come se ciò che stanno affermando/ascoltando qualcosa di molto riservato, mentre è evidente che non vedono l’ora di sgommare via e diffondere il verbo. Passando accanto a cotanta brulicante informazione, si scopre di solito che lo scandalo ha colpito l’amico della cognata del cugino dalla datrice di lavoro di tua sorella in Erasmus; altre volte, però, succede che ci si accosti con fare ingenuo al ciarliero gruppetto, non fosse che per sentirsi integrati, e ci si accorga con sgomento che tutti, improvvisamente, tacciono.
E rifuggono il tuo sguardo.
Oppure ti sorridano compassionevoli.
Indicazioni per l’uso: cancellate con una gomma mentale i visi delle persone che vi compatiscono e, se avete voglia di rivincita, dite davanti ai presenti qualcosa che lasci intendere che anche i loro figli sono coinvolti nello scandalo!

Lo scandalo…
Una tradizione italiana cattolicissima che può rovinarvi la vita, oppure rendervela un po’ più divertente. Di norma, è la giovane donna insospettabile il fulcro del pettegolezzo, meglio se foriera di gravidanza, meglio se benestante (i poveri non fanno effetto: in fondo, sono proletari… no?).
Per me, che una persona aspetti un bambino è scandaloso quanto un pedone che attraversa sulle strisce pedonali, o il fatto di pettinarsi con la riga a destra anziché a sinistra. Non mi sembra neanche d’aver sentito che da due persone non sposate sia nato un tricheco. Il problema non sussiste: sarebbe come mettersi a discutere sull’uso dell’innaffiatoio per dar da bere alle piante. Perché metterlo in dubbio?
Sarebbe più logico parlare di problemi reali, seri e urgenti, come l’accoglienza dei migranti nei nostri paesi. Se non sbaglio, un certo Francesco ha più o meno ordinato a tutte le parrocchie di ospitare una famiglia di profughi…
Sarebbe pure più interessante sentire per strada voci che parlano di relazioni felici, di matrimoni, di convivenze che vanno a gonfie vele e di coppiette appena nate che sprayano i loro nomi dentro un cuore sui muri di mezzo paese.
Ma le cose belle non fanno scoop.
Peccato.
Se non di un piattino di affari propri, poteva essere l’inizio di una tazzina di scandali un po’ più dolci.

Sarà per un’altra volta. 

martedì 1 settembre 2015

MAI TRANQUILLI




A chi non avesse chiaro il senso di un titolo come “Mai tranquilli”, voglio porre una semplice domanda: c’è stato un momento della vostra vita in cui abbiate pensato di potervi rilassare?
Perché, di solito, è proprio quello il momento in cui la Brutale e Volgare Signora decide di colpire.
E noi ci restiamo di sasso –per non dire altro-: il danno è reso più intollerabile dall’effetto sorpresa.

Uno ce la mette tutta.
Si studia, si lavora, si fa esercizio fisico, si fanno figli, ci si lascia, ci si taglia capelli e unghie dei piedi. E poi i vestiti da lavare, l’erba da tagliare, la presentazione power point da studiare… Uno si barcamena come può, insomma.
Ed ecco che, finalmente, arriva quel girono in cui ti piazzi in poltrona con un sandwich nel piattino, il libro nuovo in mano, il gatto sulle ginocchia… Stai per far scattare il poggiapiedi, e nel frattempo stili mentalmente la lista delle cose da fare: stirare fatto, meccanico fatto, meeting fatto, figlio fatto (non nel senso che lo hai drogato, ma che lo hai accompagnato quantomeno all’allenamento), dentista fatto, carriera fatta, amiche fatte (!!!), quindi…
Aaaah! Adesso sì, che mi rilasso…
Non arrivi alla terza riga del libro.
Il presagio di sventura è annunciato di solito dal telefono, ma tu già lo sapevi. Era troppo bello. Nell’aria vibrano le tracce del primo squillo, e non vuoi rispondere. Eppure una forza non contrastabile ti porta ad allungare una mano verso il maledetto cellulare: è fatta.
La pacchia è finita.
Il sandwich sa di cacca.
Il gatto si accorge del tuo cambiamento di umore e sceglie saggiamente la via del giardino.
Beato lui.
Nel momento in cui credevi fosse tutto a posto, la Brutale e Volgare Signora che è la vita ti piomba dentro casa e ti fa una bella sorpresa, che di solito ha lo stesso gusto del sandwich.
Non si può stare mai tranquilli.
E che possiamo farci, noi?

Fortuna che, tra una sfiga e l’altra, i libri si riescono anche a leggere, i film vengono visti e rivisti, gli amici veri restano, amore e sogni non abbandonano mai la nostra anima, e se si mette a piovere… poco male.
Faremo spallucce e ordineremo a domicilio.


martedì 25 agosto 2015

Il diritto di avere un bel vestito




Una delle caratteristiche del mio gruppo di alcolettura è che tutte adoriamo i vestiti.
Quando le ragazze mi chiedono dove ho preso la tal gonna o il golf, io mi vedo costretta a rispondere invariabilmente: al mercato. Qualcuno mi ha consigliato di rispondere sempre: da Armani. Ma le mie bugie mi si leggono subito nelle guance e così farei pure la figura della stolta. Sarebbe bello avere un abito di alta moda. Sentire una leggerezza nel tessuto, indossare un colore delicato e vivo, essere per una volta una specie di dea. Ogni donna merita questo, nella propria vita.

Un’altra caratteristica del nostro gruppo sono i problemi sentimentali.
Gli uomini che frequentano le mie ragazze sono un po’ come i vestiti del mercato: carini, sì, quasi belli; alcuni fanno stare bene per qualche giorno, altri si sciupano al primo giro in lavatrice… tutti finiscono nel pacco Caritas dopo un anno di uso accanito o dopo tre di ritorni di fiamma.
E’ triste. Ancor più triste se si pensa che i vestiti non fanno nulla per meritarsi un siffatto destino, mentre gli uomini…
Gli uomini ce l’hanno, la favella, la ragione, l’anima. Potrebbero dirti quello che vogliono, che non vogliono, che pensano di te. Potrebbero riuscirci, a farti sentire una dea, e non costerebbe poi molto. Non quanto un abito d’alta moda.
Ogni donna ha diritto a questo.

I vestiti del mercato si devono comprare per forza, e restano comunque amici fedeli di tante giornate e serate buie. Ma quando si parla di uomini… cerchiamo quel colore vivo, quella leggerezza, non meno, non meno di così. Perché farlo, se si può avere un Armani?
Ce ne sono, in giro. Nascosti sotto le felpe del grande magazzino e le paure due-punto-zero. Serve l’occhio da fashioniste: colore vivo, delicatezza, ci fa sentire una dea. Perché cercare di meno, se si piò avere un Armani?



venerdì 21 agosto 2015

L'ultimo cielo dei "venti"




L’estate in corso ci ha fornito un’alternanza di solleone e di cieli a pecorelle: bollettino meteo by Paola, qui per voi.
Mi chiedo se tali stravaganti forme di clima animalizzato non nascondano una sorta di presagio per le nostre ferie.
Il gran caldo ci ha spinto a comportarci da leoni: drink come se piovesse (appunto), anguria ghiacciata, doccia gelata e tanti, tanti colpi al cuore –maledetta la bassa pressione o il nostro cervello di gallina?
Poi, con il celeste tappeto appeso lassù pieno zeppo di cumulonembi a forma di ovino, ci siamo rilassati ed abbiamo cominciato a illuderci che le cose potessero andare meglio. E le pecorelle le abbiamo ricreate quaggiù, dimentichi del dolore che deriva da una simile condizione…
Che teste. Che anime. Mai una mezza misura, mai una gioia. Parole sempre lamentose e dolci come le olive ancora attaccate al ramo escono dalle nostre bocche, distorte dalla noia e dalla cancrena del risentimento che alimentiamo ogni ora di ogni giorno.
Predicozzo apocalittico, questa settimana.

La svolta potrebbe venire dal fatto che in molti considerano agosto il mese “giro di boa”. Un po’ come il mercoledì. O le quattro e mezza del pomeriggio.
Per me questo agosto è il mio ultimo mese di vera estate da ventenne.
E il clima è stato importante. C’ha preso: sono nata in un secolo di grandi contrasti, dove la legge del “mettersi a novanta” per sopravvivere imperava più che mai. Un secolo con due guerre mondiali, il femminismo di seconda ondata, la disco music e Calvino. Non mi stupisco che ci sia stato un tornado in Veneto.
Il meteo ha omaggiato leoni e pecorelle allo stesso modo, senza risparmiare nessuno. Mi ricorda un altro grande evento a cui tutti siamo soggetti e sottomessi…
Bene, in quest’ultima estate da ventenne ho cercato di mettere da parte le lamentele e di seguire il flusso: abbronzatura sotto il solleone e felpa di lana al primo accenno di merinos nel cielo.
Sarò esagerata, ma sono nata nel Novecento.
Che ci posso far, se ho nel sangue un misto di paura, libertà e nostalgico senso della bellezza per il futuro.

Libro consigliato: Novecento, A.Bar

martedì 4 agosto 2015

Le semplici e le complicate


Ci sono persone a cui non importa di cose come morte, fine e tristezza.
Lo dico perché, di solito, le donne sono ossessionate da queste tre circostanze, ed in particolare:

A-     dalla morte violenta (siamo tutte convinte di essere molto importanti e che verremo uccise dal nemico numero uno di James Bond)
B-      dalla paura che ci venga una “brutta malattia”
C-      dalla malinconia relativa al passato, alla nostra situazione presente, al futuro incerto.

Insomma, siamo ossessionate e terrorizzate da tutto.
Ma alcune donne non lo sono e vivono la vita in maniera forse più autentica di noi, che abbiamo il male di esistere. Noi che siamo sempre alla ricerca di qualcosa, che ci scriviamo messaggi in piena notte e non siamo mai soddisfatte del nostro lavoro. Noi che crediamo nel Grande Amore e nella vita dei sogni.
Non dico sia sbagliato, procedere così.
Però a volte mi ritrovo ad invidiare coloro che sanno apprezzare una giornata “normale”, una routine, un obiettivo raggiungibile ed intelligente…
Chi sia più vero –noi o le anime semplici- non sto a sindacarlo.
Infine, siamo tutte donne nella schifosa situazione di donne, e questo ci rende, di base, tutte ottime amiche.



mercoledì 29 luglio 2015

Maturità, dieci anni dopo




Avete mai fatto il gioco del “Come ti vedi tra dieci anni?”.
Io sì, dieci anni fa.
E devo dire che l’immagine che avevo di me era diversa un carretto e mezzo rispetto alla vera me di adesso.

Non so se è un bene o un male che si faccia questo gioco ad un decennio esatto dagli esami di maturità.
Primo, perché ci si rende conto che quella è stata l’ultima volta in cui qualcuno ci ha definiti “maturi”.
Secondo, perché nel frattempo ne è passata di acqua sotto i ponti. E viene da chiedersi se i ragazzi che eravamo non ci siano affogati, sotto quei ponti.
Avevamo tutti carriere promettenti, davanti a noi: dovevamo diventare scrittori, avvocati, grandi chef e critici d’arte. Campioni di nuoto e di pallavolo, traduttori, popstar. Nel nostro piccolo, lo siamo, ma è come se la vita ci avesse slavato via le priorità di un tempo e le abbia tramutate in hobby e passioni represse sotto un mucchio di bollette da pagare, di cartellini da timbrare e di fidanzati che se ne sono andati.  
Cosa diavolo ne abbiamo fatto dei nostri anni migliori?

Ad una domanda così devastante, non si può che rispondere con aggressivo ottimismo. E’ vero, non sempre le cose sono andate per il verso giusto, ma chi dice che quello fosse il verso giusto? Ci preparano a controllare velocemente il resto al supermercato e ad allacciarci le scarpe, ma nessuno ci ha mai avvisato che non avremmo avuto alcun controllo su ciò che ci sarebbe capitato nella vita.
Io dico: però lo abbiamo vissuto. Siamo passati attraverso la tempesta, affrontando il nostro rumore bianco, e solo noi sappiamo quanto sia difficile. E, molto, spesso, ci siamo pure divertiti. Pazzi, pazzi autori di storie scritte da una mano più sapiente della nostra, che abbiamo cercato di contrastare con l’alcol e la letteratura… Chi sa se è servito. Tanto non importa. Conta solo il vissuto, e la sua intensità. Il passato non esiste più, e il futuro non esisterà mai. Solo il momento presente ci può dare qualcosa. E, se adesso noi siamo questi, lo dobbiamo alle avventure degli ultimi dieci anni.
E’ stato una bellissima festa.
Ora deve iniziarne un’altra.

Facciamo macchina unica?

mercoledì 22 luglio 2015

La crisi del rimorchio



Come voi ben sapete, l’argomento “singletudine” mi sta molto a cuore, avendo io svariate conoscenze colpite dal ‘devastante’ fenomeno.
In realtà, sembra che l’essere sole e libere da legami sentimentali non sia male, per alcune delle donne che frequento. Per altre, invece, al dramma della solitudine si aggiunge quello, altrettanto devastante, del non-rimorchio.
Il non rimorchio non è, come potrebbe sembrare, l’esatto contrario del rimorchio (che si manifesta invece con la gogna pubblica). Il non-rimorchio è forse peggiore: si tratta dell’apparente indifferenza da parte del sesso opposto nei confronti di un tentativo di abbordaggio. Insomma, non ci provano più.
Non essendo io un’esperta di lesbismo, mi limiterò a parlare della cosa dal punto di vista delle donne etero. Grazie e arrivederci.
Bene. Anzi, male. Malissimo. Il rimorchio è una delle situazioni sociali più belle in cui ci si possa trovare.  Una volta era tutto un rimorchio: praticamente, non si usciva che per quello. E ci andavano dietro jeans nuovi, trucchi, perfino la parrucchiera (se avevi messo via abbastanza dineros). Forse è per questo che è scoppiata la crisi. Non tanto per le speculazioni edilizie del 2008, quanto per la mancanza di desiderio di rimorchiare.
Siamo messi male: se viene a mancare il rimorchio, i sogni di molte donne etero potrebbero andare in frantumi nel giro di pochi anni. Niente coccole, niente anniversari, niente vacanze per due, niente cene romantiche. Ma noi, donne forti, davvero forti, possiamo permettere che il nuovo e deleterio stato d’animo degli uomini d’oggi ci rubi questi sogni? Siamo davvero disposte a naufragare sull’isola deserta senza sparare un ultimo razzo di avvistamento?
Io dico no. Se desideriamo stare per conto nostro, allora va bene. Ma se vogliamo qualcosa di diverso, dobbiamo uscire a cercarlo. Ed affinare un po’ l’arte del rimorchio. In fondo, la parità dei sessi si manifesta anche così, no? Non è detto che ci debba provare sempre e solo lui. Se, al momento, i maschi sono bloccati da una fifa tremenda, direi che per una volta possiamo dar loro un piccolo aiuto e mandare qualche segnale. Attenzione: il segnale dev’essere inequivocabile. Altrimenti non funziona. Non basta più sorridere e lanciare sguardi. Forse attaccare bottone ed offrire da bere sono segni d’interesse un po’ più espliciti.
Non ci avevo mai pensato, ma non è che non ci provano perché, con la crisi, hanno finito i soldi per pagarci un drink?
Sono tempi difficili, care mie.

E, allora, zeppe in spalla: andiam, adiam, andiamo a rimorchiar...

martedì 14 luglio 2015

Be happy




Ai membri sacri di un’antica tribù sudamericana venivano cavati gli occhi affinché i loro legittimi proprietari non potessero conoscere il mondo e non ne venissero così intaccati nelle loro grandi potenzialità. I re e le regine di quelle tribù se ne stavano rinchiusi in caverne isolate, in modo da rimanere integri e puliti nei confronti di qualsiasi distrazione o tentazione.
Noi, comuni mortali, re e regine di un quotidiano già abbastanza faticoso, non possiamo restarcene chiusi in casa, né evitare di vedere come vanno le cose in Grecia, in Libia, in Cina, nel Texas…
Le nostre sacralità sono la pizza del sabato sera e la famiglia. Niente capacità divinatorie, per noi, e niente riparo dalle brutture del mondo esterno.
Abbiamo vite semplici: di certe non verremo ricordati per particolari rituali sociali di grandezza storica o per speciali trattamenti verso gli anziani delle nostre comunità. Diciamolo: noi del Terzo millennio siamo un po’ sfigati.
E ci cresce l’ansia.

Yaia cucina torte e muffin, quand’è stressata.
Maggiolina salassa il conto in banca e trasfonde in vestiti.
Glade, semplicemente, sparisce dalla circolazione.
Una Persona Che Conosco non dorme ed è facile alla commozione.
Sole si fa lunghe guidate solitarie in posti vicini all’acqua (dovrei preoccuparmene?).
Io, quando l’ansia mi arriva alle caviglie, ballo da sola. Oppure nego la realtà e mi metto a dormire.

Noi del Terzo millennio non saremo proprio il massimo, come persone, però abbiamo escogitato un sacco di modi diversi e belli per sconfiggere la paura. Probabilmente, se avessimo incontrato uno della tribù dei cava-occhi ed avessimo sospettato che quello stava per riservarci uno dei suoi trattamenti per la sacralità, ci saremmo accucciati per terra ed avremmo risposto le nostre speranze nella riflessuologia plantare, oppure ci saremmo messi al suo fianco per scattare un selfie.

Non dei geni, certo, ma provate a trovarmi una società più simpatica della nostra. 

Libro consigliato: Il manoscritto di Brodie, Borges.

martedì 7 luglio 2015

All'uomo, all'uomo!



Credevamo di essere uscite dal tunnel: l’argomento ‘uomini’ non faceva più la sua comparsa durante i nostri aperitivi da almeno un mese.
Poi, venerdì, la ricaduta.
Una cosa di pochi istanti, una domanda, qualche commento, e siamo ripiombate tutte e quattro nel drammatico quesito: perché non rimorchio?
Ora, io e Maggiolina siamo consapevoli che una donna fidanzata o sposata non rimorchia per il semplice motivo che emana l’odore del suo uomo e tiene così lontani gli altri. Un po’ come la Citronella.
Ma per Glade e Yaia sembrerebbe non esistere una valida spiegazione alla scarsità di testosterone negli immediati paraggi. Volendo suddividere la torta in fette, potremmo dire che una fetta se la sono già mangiata entrambe; un’altra é composta di uomini insensibili che non le richiamano più; un’altra ancora costituisce la parte di uomini che le corteggiano ma non destano l’interesse delle mie amiche.
Le restanti fette… contengono senz’altro una schiera di cialtroni indecisi, infantili, ignoranti e poco equipaggiati a livello di carrozzeria.
Che situazione.
Ma sono tutti così, gli uomini??
A questo cercavamo di rispondere venerdì davanti a un Ugo. Lo so, sembra davvero una scena alla Sex and The City, ma il fatto è che le donne li hanno sul serio certi pensieri, certi sentimenti, mentre gli uomini non li esprimono. Non li hanno educati a farlo.
E dire che, se lo facessero, sarebbe tutto così semplice.
E’ vero che, in quel caso, i migliori romanzi e film mai esistiti forse non avrebbero senso di esser letti e guardati, ma per chi è in cerca del vero amore sarebbe comodo poter capire al volo chi altri c’è, in giro, che cerca la stessa cosa.
Proposta in tre step: UNO, capire cosa vogliamo;
                                       DUE, metterci al collo un bel cartello con su scritto “Cerco il vero amore/ una forte amicizia/ una botta e via”;
                                        TRE, iniziare a guardarci intorno, a partire dalle persone più vicine.
Vuoi mai che ti salti fuori qualcosa di bello.  



Film consigliato: I ponti di Madison County di Clint Eastwood.

martedì 30 giugno 2015

Dieta ipo-affettiva? No, grazie!




Siamo quello che mangiamo, dicono le ultime teorie alimentari.
Secondo me, siamo chi amiamo.
Se amiamo tutti, siamo tanta roba.
Se non amiamo nessuno, siamo nessuno.
Se amiamo a metà, siamo incompleti.
E, se amiamo troppo, prima o poi esondiamo.

Quest’estate andrò in vacanza con due ragazzi che non si fanno molti problemi a dirmi quello che pensano, quindi ho deciso di mettermi a dieta. Forse dovrei mettere a stecchetto anche i miei comportamenti e vedere se c’è qualcosa che si può migliorare.
Un simile proposito autocritico nasce in me anche da recenti scontri che ho avuto con Glade. Scena:
IO:-Ti impegni troppo poco per la nostra amicizia.
GLADE:-Questo è quanto. Prendere o lasciare.
IO:-Allora vai a quel paese.
GLADE:-Sei una aznorts (leggi al contrario).
Ve l’ho messa giù un po’ romanzata, ma il succo c’è.
E non mi va bene.
Come si fa a dosare correttamente calorie e calore umano? Fosse per me, di alcune persone mi abbufferei, mentre altre le cancellerei dal menu.
Dovrei considerare Glade come il piatto del giorno: non lo puoi ordinare ogni volta che vai a pranzo, e magari non è sempre quello che vuoi, però quando lo trovi non puoi fare a meno di essere contento.
Qualcuno mi ha detto che è sempre meglio avere più persone possibile su cui contare. E’ una specie di riserva di energia –come l’acqua nella gobba del dromedario.
Le persone che amiamo sono la nostra gobba.
Vale per il cibo come per l’amore: in fin dei conti, siamo quello che abbiamo dentro.

E chisseneimporta se, poi, fuori sembriamo un po’ gonfietti.

Libro consigliato: Crash! di Jerry Spinelli. 

mercoledì 24 giugno 2015

Papa e mammA'



Finalmente, la Chiesa si apre a divorziate e divorziati, coppie di fatto, omosessuali.
Non tanto perché ne avessero bisogno, secondo me, quanto per un minimo di coerenza nei confronti dei valori cristiani di base, così professati e poco praticati.
Ora mancano solo le donne.
Quando smetterà questa condanna ad ancelle ed assistenti, anche all’interno dell’ambiente ecclesiastico? Quand’è che le suore potranno diventare vescovi e cardinali anche in Italia? Non vi è nessun motivo per cui una donna non possa ricoprire il ruolo di papa. Nessuno. E, allora, perché non è ancora possibile? Abbiamo visto di tutto, ormai: pedofilia, ingordigia, omissioni di soccorso… Eppure un cambiamento del ruolo della donna nella Chiesa sembra il peggiore dei tabù.
Ma svegliamoci. Una donna sacerdote porterebbe solo vantaggi e positività nella mentalità ristretta e maschilista dei già sistemati uomini di Chiesa, timorosi che presenze femminili forti possano scardinare il loro prezioso sistema basato sulle tre P, ma non quelle cristiane, Povertà, Pietà e Preghiera, bensì su quelle su cui si basa tutto il resto del mondo, Pecunia, Potere e l’ultima non la scrivo perché sono elegante.

Sarebbe ora che anche nella Chiesa le donne si emancipassero e reclamassero i loro diritti, invece di continuare a nettare la canonica e a cantare nel coro.  Che, a fare quelle cose lì, ci possono pensare anche degli uomini con le loro manine sante: è con le rivoluzioni che si cambia il mondo. E sta cambiando, questo bisogna ammetterlo, però la prossima volta ci piacerebbe che, a dare le linee guida per il Sinodo, fosse Francesca. 

Libro consigliato: Ave Mary, Michela Murgia. 

martedì 16 giugno 2015

Ciuf-ciuuuf!!



La settimana scorsa, ad una festa.
Poco prima che piovesse.
La mia nuova amica mi ha raccontato delle sue ultime esperienze da cinema Celestini e, udite-udite, sembra che l’uomo due punto zero non disdegni una capatina nel back stage, ogni tanto.
Da star a sterco, mi verrebbe da dire, se non fosse la cosa più schifosa che io abbia mai scritto su questo blog. (Ormai l’ho detta.)
Da ottima paranoiosa quale sono (e anche paracula), ho dato avvio ad un viaggio nei meandri di quel gioco che potremmo chiamare “trenino” e nel tipo di relazioni che lo prevedono. In amore, si sa, la passività colma l’ego di un uomo, se è lui a stare dietro. Ma in tutti i rapporti, in generale, come si fa a stabilire se le persone sono alla pari o se una delle due, brutalmente, predomina?
Dicono che in ogni coppia vi sia la parte attiva e quella passiva. Una più aperta ed una più chiusa (largo ai doppi sensi). Una che si dà da fare, un’altra che si lascia trasportare. A volte, il binomio può risultare perfetto; in altri casi, ci si riduce al triste spettacolo di una trazione anteriore che si porta dietro in scia un vagone di miserie. Sta di fatto che, attivamente o passivamente, stiamo sempre parlando di metterselo in quel posto, il che non è mai bello.
Come nella realtà, il trenino dovrebbe essere qualcosa di sereno e divertente, un incantevole viaggio in cui le immagini scorrono nel riquadro del finestrino e tu puoi lasciare spazio ad un trip mentale senza aver assunto droghe. Solo che è difficile capirsi, quando è necessario voltare la testa di centottanta gradi per incontrare gli occhi dell’altro. Qui si parla di mesi e mesi di cervicale.
Eppure bisogna farlo. Ne sono convinta. Che ne so se per gli altri è giusto o sbagliato: per me, i buchi degli occhi sono più importanti di tutti gli altri. Se sono alla stessa altezza di quelli altrui, lo saranno anche i cuori ed è più facile che lo diventino anche i pensieri.

A nessuno piace soffrire (benchèe se l’associazione sadomasochisti & co. potrebbe avere da ridire). Allora, sai cosa si fa? Si sta attenti alle fermate. A volte si arriva fino al capolinea, altre, invece, qualcuno scende prima. Non è un problema. E’ una scelta, chiamata felicità.
Il treno ha fischiato, lo diceva pure il Belluca pirandelliano. In un senso un po’ diverso, ma ci sta tanto bene.
Il treno ha fischiato.



mercoledì 10 giugno 2015

Coraggio al buio

Sono fichi, gli usignoli.
Non fanno niente di male e, in più, gorgheggiano.

Tutto è cominciato qualche settimana fa.
In pieno trasloco, non mi separavo mai –comunque- dal mio Kindle ed alternavo gli scatoloni alle pagine di un libro consigliato dai personaggi di un altro libro (che meraviglia quando succede).
Il buio oltre la siepe… Un titolo misterioso. Domestico, ma anche inquietante. Una enorme storia di coraggio da parte di un avvocato “bianco” e dei suoi bambini, una storia di integrazione (difficile) e di mancanza di pregiudizi…
Lo leggo tutto, con un occhio sulla pagina ed uno già nella pagina dopo, e in quella dopo ancora. Uno di quei libri che ti entra dentro e ci resta per sempre. Come certe persone.
Disperata per averlo finito, vado a cercare la altre opere dello stesso autore.
E scopro che è una donna.
Non lo avevo neanche immaginato.
L’idea non mi aveva sfiorato. Ma perché?
Forse perché non mi aspettavo che nel 1960 una donna scrivesse così incredibilmente bene del dramma di un papà single che difende un “cioccolato” in Alabama. E con quale devastante simpatia!
…la simpatia, ecco: quella doveva aprirmi gli occhi. Solo una donna capisce tanto in profondità le cose da potersi permettere di prenderle con leggerezza.
Da qui, il confronto con le donne di oggi è un attimo: su cosa siamo concentrate noi donne tra i venti e i quarant’anni? Abbiamo in effetti un ideale, una lotta tutta nostra, una rivoluzione sociale da attuare, o stiamo solo vivacchiando, in attesa che qualcun torni a dirci cosa fare di noi, dal momento che tutta questa libertà ci rende attonite?
Ed ecco che la magia della vita invade i giorni più significativi di ogni persona: i miei nuovi vicini di casa sono africani. Lei, bellissima, calma, osa dirmi solo un timido “ciao” quando c’incontriamo sulle scale. Non ho visto amici di altre etnie salire a trovarli--- e d’altronde nemmeno io ne ho. Ci fa ancora tanta paura il diverso. Ed è la donna, come sempre, a rimetterci di più, perché deve rispettare confini precisi, pesanti, che fanno timore.

Coraggio. Se la mia parola d’ordine dell’anno scorso era libertà, quella dei prossimi mesi sarà coraggio. Non possiamo più aspettare. La vita è troppo corta e troppo strana per crearci problemi da soli, segregando, indugiando, elucubrando: quello che vogliamo essere, dobbiamo tirarlo fuori.
Altrimenti, ciaòne a tutti i diritti conquistati.
Non ammazziamo il nostro usignolo: per amore o per rabbia, egli deve cantare.


Grazie, Harper. In attesa della prossima storia… 

mercoledì 3 giugno 2015

Carosello infernale



Lo sapevate che, ogni estate, in Italia, si svolgono più di milleseicento feste paesane?
Forse questo dato non vi era noto, ma di certo sarete al corrente di quanti inciuci nascano in occasione delle sagre, tra gli stand, e dia quanto le situazioni sociali influenzino la nostra vita affettiva.
E’ proprio il caso di un gruppo di ragazzi under 30, come potreste essere voi adesso (o qualche anno fa). Poniamo che, tra un paio di settimane, il paese in cui vivete organizzi una grande festa a tema –vino, pasticcini, uova sode e vodka…- e che una ragazza il cui fidanzato si è assentato per lavoro decida di parteciparvi anche senza di lui, accompagnata da un’amica single in crisi esistenziale e ad alcune conoscenze di vecchia data.
Poniamo il caso che non tutti gli amici di vecchia data si ritengano “solo amici”, che l’alcol inizi a scorrere quasi quanto il fiume lì accanto e che, la sera seguente, tutto ricominci…
Una tre giorni impegnativa è quella che vi aspetta, qualora decidiate di prende parte alla festa, Bisogna essere preparati a qualsiasi eventualità: nuovi orientamenti sessuali, ex che tornano alla ribalta, e forse un surreale momento di riflessione nel bagni chimici, mentre fuori la musica impazza e non si è più consapevoli della propria identità di ragazzi.
In fondo, cos’è un romanzo se non una storia di vita reale? E cos’è la vita reale se non un turbinio di eventi, parole, scelte, incontri, danze? Così, tra un bicchiere e l’altro, con le nostre paure e i nostri destini, ci ritroveremo in un girotondo sfrenato ed insieme immobile, ad imitare, ancora per una notte, ancora per un stente, il Carosello infernale che è la vita.