martedì 26 marzo 2013

Non farò mai più qualcosa che non voglio fare


Con il detonatore dentro

Mentre frequentavo l’università, ho deciso che non avrei mai più fatto qualcosa a meno che non fossi io a volerla fare.
Il pensiero mi ha illuminato una mattina di febbraio, due anni or sono, nel momento in cui il mio sedere ha perso ogni sensibilità a causa del marmo freddo su cui l’avevo poggiato da circa un’ora –il tempo minimo d’attesa che serve prima di essere ricevuti in segreteria.
Da noi, la segreteria universitaria apre alle dieci e dieci del mattino, e ciò fa sorgere una serie di domande: dieci e dieci? Non è già abbastanza tardi, come orario, le dieci in punto? Vi servivano proprio quei dieci santissimi minuti? Perché a me non sono serviti dieci minuti in più per arrivare da un posto che ne dista cinquanta, in autobus. Eppure alle dieci e dieci io sono qui, voi no, o strane creature a mezzobusto anche note come segretarie!
Detto questo, quella mattina –ora che ci penso era il mio compleanno- me ne stravo in fila con altri miliardi di studenti, desiderosi come me di consegnare la tesi entro il termine stabilito. Dal mio gradino in cima al biscione (non ero solo in orario, quel giorno ero arrivata in anticipo di nove ore per accaparrarmi un posto decente) guardavo gli altri con la tristezza nel cuore: tutti quei visi giovani, un po’ assonnati, arrossati per la corsa o per il trucco appena messo, alcuni senza l’ombra di barba, altri con improbabili piercing… Tutti loro avrebbero potuto essere altrove, in quel momento, a impiegare il tempo in un altro modo, senz’altro migliore che stare appoggiati al muro di un ufficio consumando ore ed ore a fissare la nuca della persona davanti a sé. Tutti noi avremmo dovuto essere altrove.
Il pensiero fastidioso si rafforzò quando avvistai finalmente lo sportello della mia facoltà. Erano passate davvero ore ed ore e io e la mia compagna di sventura avevamo esaurito tutti gli argomenti di conversazione, quindi il silenzio ci accompagnava nella fila mettendo in imbarazzo gli studenti intorno a noi.
Ormai sull’orlo di una crisi di nervi, attendo (ancora) che la segretaria chiami il mio turno. Lei non lo fa. Si guarda intorno, sfoglia un fascicolo, sparisce dietro un separé a ridacchiare con qualcuno… Poi torna, e vi giuro che sembra veramente intenzionata a chiudere baracca e burattini per andare in pausa.
“Mi scusi…” azzardo.
La giovane donna in tween set lilla mi guarda stupita,  come se le avessi detto “Vaffanculo”.
“Hai bisogno?” è la sua geniale domanda.
NO. NON HO BISOGNO DI NIENTE. TI FISSO PERCHE’ OGGI SEI UNO SPLENDORE. SONO QUI IN FILA DALLA QUINTA ELEMNTARE SOLO PERCHE’ MI HANNO DETTO CHE QUI CI LAVORI TU.
Ma certo che ho bisogno, brutta scema! Ho bisogno che tu ritiri la mia preziosissima tesi, cosa che mi permetterà di laurearmi, ma dubito che tu abbia un’idea di cosa ciò significhi.

Questi pensieri mi si sono agitati dentro per qualche secondo, ma poiché la mamma mi ha insegnato a essere gentile (perché l’hai fatto, mamma?) le ho risposto dicendole esattamente cose doveva fare: cercare il mio nome nella lista dei laureandi, timbrare la tesi, metterla in archivio e mandarne una copia al correlatore. Ah, anch’io devo firmare! Bene. Per fortuna che ce ne siamo ricordati… Altrimenti credo proprio che il giorno della laurea, se non avessi trovato il mio nome in elenco per mancanze burocratiche, sui giornali si sarebbe parlato di studentessa idrofoba; sbrana la commissione estraendo i cuori dal petto dei professori; è nascosta da due giorni negli uffici universitari con gli scalpi delle segretarie appesi alla cintola.

Ecco perché, da quel giorno, ho giurato solennemente a me stessa che nessuno mi avrebbe più fatto sprecare una goccia del mio tempo, nessuno avrebbe più vissuto dei minuti al posto mio, nessuno mi avrebbe più trattato con sufficienza, e, soprattutto, nessuno mi avrebbe imposto, in un modo o nell’altro, di fare qualcosa che non volevo fare.
Da allora ogni mattina mi guardo allo specchio, penso alla giornata che sta per iniziare, e mi sono imposta una regola: chiedermi sempre se quello che accadrà nelle prossime ventiquattr’ore mi soddisfa, mi realizza, mi stimola e mi rende felice, altrimenti… meglio non farlo.
Lo so che al lavoro bisogna andarci, che ogni giornata comporta responsabilità e paure da affrontare. Ma, giorno dopo giorno, le settimane diventano mesi, e i mesi anni, e noi diventiamo vecchi ripetendoci davanti a quello stesso specchio:”Oggi va così, ma cambierà. Devo solo resistere un altro po’.”
Lo vogliamo davvero? Siamo certi che non stiamo consumando momenti preziosi della nostra vita sperando che essa cambi? Che un qualche Dio ci aiuterà?
La vita è così corta… Ottanta centimetri, afferma un mio vecchio zio. Novanta, se si è molto fortunati. Quanto ci resta? A me, in teoria, mancano cinquantasette centimetri, stando alle statistiche sulla longevità femminile. E se, invece, mi restasse solo un millimetro? Oggi ho scelto di condividerlo con voi, scrivendo. Perché non diventare padroni del futuro, adesso? E’ una contraddizione in termini, è vero, ma potrebbe funzionare. Potremmo reinventarci. Essere veri e non immagini riflesse di quello che avremmo voluto essere da bambini, quando i nostri pensieri erano incontaminati e autentici –quelli sì che erano progetti da seguire!
E magari ci incontreremo tutti oltre lo specchio, in una realtà dove anche le segretarie non esistono più: sono diventate attrici di teatro, poliziotte, cuoche, psicologhe, piloti d’aereo, fioriste.
Guarda quante possibilità meravigliose abbiamo, di brillare. E il detonatore è dentro di noi.

mercoledì 20 marzo 2013

On friendship


Ovvero: Una bella gatta da pelare

Io e Glade abbiamo avuto la nostra prima vera discussione.
Nei mesi scorsi i nostri rapporti si sono raffreddati come se qualcuno avesse acceso tra noi il Pinguino Delonghi sulla modalità “Siberia”, e nessuna delle due sembrava voler sbrinare la situazione.
Tra una frecciatina e l’altra, mi sono messa a riflettere sul senso della nostra amicizia, e, più in generale, sull’amicizia tra donne. Un tipo di relazione assai complicato.
Perché, poi? Tra ragazze dovremmo capirci al volo, essere sulla stessa lunghezza d’onda, aiutarci a vicenda… Sono solo luoghi comuni, questi?
In effetti, io ho sempre avuto più amicizie maschili che femminili. Le donne sono troppo contorte, mi dicevo. Cervellotiche. Competitive. Sono gatte che tornano dal padrone solo per poter gustare ancora una volta quelle squisite scatolette di cibo che non si trovano in natura. L’uomo è più disinteressato, e anche più oggettivo quando si tratta di dare consigli.
Era un’illusione ottica, visto che da un anno convivo con il mio migliore amico (e non sono sicura che lui non torni a casa solo perché non riesce a procacciarsi il cibo in natura!).

Eppure tutte le ragazze che conosco si spostano a coppie o a gruppetti, migrando verso le toilettes dei locali e facendo iscrizioni di massa in palestra.
Perché, nonostante tutto, abbiamo tanto bisogno della compagnia di altre donne? Dico “nonostante tutto” a ragion veduta: cresciute come siamo cresciute, purtroppo siamo costantemente sul chi vive in presenza di altre donne, anche se le consideriamo amiche. Dapprima avviene il confronto esteriore: ma guarda come è vestita, non si può abbinare quella gonna con quella giacca, dio è ingrassata, e come fa ad essere comunque più gnocca di me??
Poi c’è la gara per chi arriva prima nel lavoro: la carriera sembra stabilire quanto sei intelligente, e forse anche quanto puoi piacere ad un uomo.
Ecco, terzo e dolentissimo punto: piacere agli uomini. Davanti a questo obiettivo, non c’è amicizia che tenga. Lo trovo tristissimo e molto al di sotto della possibilità che una donna ha di dare affetto a una sua “collega”. Perché non riusciamo quasi mai a essere semplicemente noi stesse, invece di sacrificare ogni volta un pezzetto della nostra vita sociale per posizionarci all’ombra di un maschio?
Forse perché essere solo noi stesse ci spaventa.  Non ci siamo abituate. Veniamo da una cultura che ci connota non come Essenziali, Uniche, degne di esistere come soli al centro di costellazioni, ma come stelle, lucette anonime e rassicuranti che vanno a comporre una più ampia figura. Siamo così poco avvezze a concepirci come “sole” che l’idea di rimanerci sembra non far proprio per noi.
Eppure bisogna riuscirci. Dobbiamo conoscere la nostra luce, anche se è fioca e con le occhiaie, e imparare a scaldarci da sole. E’ difficile, ma non esiste altro modo di diventare grandi.
Io e Glade abbiamo litigato proprio per questo motivo: stavamo cambiando e ne eravamo entrambe terrorizzate. Così abbiamo preferito prendercela con l’altra ed instaurare una guerra fredda tutta al femminile piuttosto che darci apertamente delle “gatte”.
Non mi rendevo conto che non c’è nessun padrone.
Sono gatta anch’io, e se ci pensiamo bene i gatti sono molto più stupidini di quello che sembra. Si spaventano per un nonnulla, si rotolano sulla pancia non appena iniziamo ad accarezzarli, giocano con fili e palline di carta o, in mancanza d’altro, con la loro coda.
Siamo tutti un po’ gatti. Viviamo almeno nove vite dentro la nostra, e quando riceviamo un colpo sul muso perdiamo l’equilibrio e rimaniamo doloranti e disorientati.
E di colpi sul muso è necessario prenderne tanti per arrivare a capire il valore delle cose. Delle persone.
Certo ci si potrà odiare un po’ per i colpi ricevuti e inferti. Le critiche e i ripensamenti non mancheranno. Le strade potrebbero andare in direzioni diverse.
Dipende tutto dal valore che si deciderà di dare al rapporto. Sarà una bella gatta da pelare.




Una canzone tosta per una dura lotta!

martedì 12 marzo 2013

Io e mamma


Per una donna è più facile

Al mattino, di solito, quando ci si alza e si comincia la giornata, non si ha troppa voglia di parlare. Tanto meno di discutere.
E invece no, in certe famiglie è diverso. Soprattutto nei primi periodi dell’anno, giorni in cui tutto è sospeso, da avviare, da riassestare. Compresi i rapporti con le altre persone.
In questi momenti, e in queste famiglie, la quiete del risveglio non è che un preludio al litigio, il classico saluto –“Buongiorno”, o ancora meglio “’Ngiorno”- un auspicio dallo scarso potere profetico. Non appena si varca la soglia della cucina, già pregustando (illusi) una tranquilla seduta fatta di caffè e marmellata, si viene accolti da:
a) padre alle prese con la propria identità di pensionato
b) madre munita di ferro da stiro
c) sorella/e che viene/vengono a chiedere favori di varia natura
d) latrato del cane dei vicini, animale immortale
e) altri eventi gradevoli come le noci marce.

Nel mio caso, l’elemento disturbante si è rivelato insito nell’opzione b.
Ora, non so se voi siate adepte o adepti delle pulizie di casa. Forse fate parte di quel gruppo di individui che amano, anzi adorano riordinare, lavare vetri, sperimentare in cucina lasciando dietro di sé colonne di pentole da sgrassare. Di più, forse voi non potete proprio farne a meno, di mettere tutto a posto, tutto catalogato in rigoroso ordine alfabetico: dite la verità,vi sentite male solo al pensiero che qualcuno possa non condividere la vostra passione per l’ordine e l’igiene e che esistano al mondo persone che vivono (peraltro serenamente) nel caos.
Ecco, io sono una di queste persone. Non la maniaca del pulito, al contrario: io ho la puliscifobia. Chi ha letto il romanzo Guerre in famiglia di Jerry Spinelli sa di cosa parlo.
Purtroppo per i miei nervi, mia madre ha fatto di tale pigrizia una questione legata al genere sessuale.
Quella mattina, un attimo prima che io –pacifica- mi attaccassi alla mia spremuta come un vitellino alla tetta della mucca, la mia mamma m’ha bruscamente ricondotta alla realtà, affermando che si stupisce del fatto che io sia così poco propensa a fare le pulizie, dal momento che dovrebbe essere nella mia natura di donna imbracciare scope e impugnare cucchiai di legno ogniqualvolta io abbia del tempo libero, trovandomi in prossimità di un fornello o di un pavimento.

Lasciamo passare qualche istante di silenzio, per favore.


Urge una mini-premessa: in quel periodo non lavoravo molto. Credo non ci sia bisogno di illustrarvi l’attuale situazione del mercato del lavoro per farvi capire perché ero spesso a casa. E, soprattutto, non c’era bisogno di fare ciò di prima mattina, quando una persona non gradisce di sentirsi ricordare non appena apre gli occhi quanto è sfigata e inutile per la società.

Allora cercai, con tutta la diplomazia e il sangue freddo possibili, di spiegare il mio punto di vista alla donna che mi ha dato alla luce. E lei che fa? Trasla le proprie idee da fine Ottocento dentro l’argomento “lavoro”, mentre continua a stirare, chssss-chssss (ma dov’è finita quella ragazza che negli anni Sessanta andava in fabbrica con la gonna corta?) chsss- chssss:
-Guarda che se tu fossi un uomo sarebbe molto più difficile sopportare la disoccupazione. Cosa può fare un maschio se lo lasciano a casa dal lavoro? Una donna, male che vada, ha sempre da fare i mestieri, se poi rimane incinta deve allattare… Pensa, ci sono certi Paesi in cui la legge permette alla donna di tornare subito al lavoro dopo il parto. E il marito dovrebbe restare a casa a occuparsi del bambino! E come fa? Non ha mica il latte, lui…
I mestieri. Perfino la chicca della nuova legge, mi ha tirato fuori.
Non ha nemmeno fatto caso all’enorme, evidente contraddizione che si annida nelle sue parole, quelle di prima e quelle che ha appena sciorinato. Io sono pigra. Lei se ne stupisce. In effetti, io non pulisco. Non faccio il bucato, non stendo. Cucino poco. Non ho sempre voglia di fare la baby sitter ai miei nipoti. Sono pigra: fare i mestieri non mi piace, mi annoia. E sono una donna. Lei questo lo sa, lo vede. Eppure, è decisa nell’affermare che gli uomini soffrono di più il problema della mancanza di lavoro, si annoiano di più a casa, poverini.
Sono traumatizzata dall’eccesso di opinioni discordanti dalle mie, opinioni che la mamma ha espresso così candidamente, forse aspettandosi che io non reagissi o che le dessi una pacca sulla spalla in segno di condivisione, mi legassi un fazzoletto sulla testa e iniziassi a cantare la bella lavanderina.
Tanto, per noi donne è più facile.
Per noi non è logorante, preoccupante, da insonnia, frustrante, devastante, ingiusto, noioso, scoraggiante e triste l’essere senza un lavoro: noi possiamo sempre pulire. Allattare. E in malora i sogni, i progetti, le aspirazioni, gli anni di studio, le proprie esigenze!
Mi chiedo cosa stia succedendo alle emancipate e sgamate donne di oggi…

E la risposta arriva, semplice, chiara: niente. Ecco cosa sta succedendo: niente. Non è cambiato niente.
 In apparenza, sì. Persino mia mamma mi ha allattato con il latte in polvere; dovrebbe sapere che, pur di non perdere il posto, una donna può ricorrere ad altri mezzi e far sì che tutta la famiglia  accudisca il neonato. Se può farlo una donna da sola, perché non possono adattarsi anche il marito o i figli più grandi?
Ma la mente è ancora là, intrisa della filosofia della Rinuncia. Siamo sempre le solite crocerossine, vittime consenzienti di una trazione perpetua che ci vuole da una parte indipendenti e seducenti come mai era stato nei secoli scorsi, dall’altra mogli e madri esattamente come nei secoli scorsi.

Quella mattina io ho discusso duramente con mia mamma. Poi ci siamo lasciate senza particolari malumori, vicine nella convinzione di essere lontane.
Forse, se avessi avuto un po’più di coraggio, avrei dovuto farle alcune domande, anziché tentare di rispondere alle sue affermazioni. Domande tipo..

Tu cosa vuoi?
Cosa volevi fare da piccola?
Volevi davvero sposarti?
Cos’è Dio per te? E l’anima?
Volevi avere figli?
C’è differenza tra l’anima di una bambina e quella di un bambino quando nascono?
Credi più nella natura o nell’educazione?
Secondo te, il lavoro ha un sesso?
E la disoccupazione?

Chi sei tu?

Ma no, no. Meglio non avventurarsi in territori troppo esotici/erotici.
Per due motivi.
Uno, sarei in ritardo di svariati decenni.
Due, a mala pena me la cavo con la mia esistenza, quindi…molto meglio rivolgere le domande a me stessa. A voi. A noi.

Io cosa voglio?
Cosa desidero fare da grande?
Voglio sposarmi?
Cos’è Dio per me? E l’anima?
Voglio avere figli?
C’è differenza tra l’anima di una bambina e quella di un bambino, quando nascono?
Credo più nella natura o nell’educazione?
Secondo me, il lavoro ha un sesso?
E la disoccupazione?

Chi sono io?

lunedì 4 marzo 2013

Single dentro

Sottotitolo: Una bellissima ninfea



Alzi la mano chi di noi non si sente single dentro. Almeno un po’. Almeno uno o due giorni all’anno.
Consolatemi: chi di voi si sente single dentro almeno un o due giorni…al giorno?!
Non fraintendiamoci, chi mi conosce sa che ho per le mani un grande amore (si pensa sempre che sia così, se no perché sforzarsi tanto?) e che non me lo lascerei scappare per tutte le gemme del mondo (l’oro è svalutato, al momento).
Cosa voglio dire, allora, quando mi definisco “single dentro”? Per me, single è sicuramente far festa, tirar tardi, mangiare e bere e altre cose che vengono di norma associate alla vita da single. Non credo di stupirvi, però, se vi confido che l’unica differenza tra me e una donna single è che io sono certa della faccia che avrà il mio partner stasera. Del doman non v’è certezza.
Per il resto, chi ha detto che una ragazza fidanzata non possa dedicarsi alle medesime attività cui si dedicano le amiche sfidanzate? Io ritengo con forza che sia necessario il recupero, da parte delle donne impegnate (…che modo di definirsi, poi…), della propria libertà e del diritto di continuare a condurre una vita divertente e intensa anche dopo l’incontro con l’amore.
Odio quelle coppie che, una volta ufficialmente formatesi, si impacchettano e si spediscono a casa per il resto dei loro giorni, dimenticando gli amici, lo sport, l’arte, la cucina giapponese, le vacanze di gruppo e, in pratica, il resto del mondo. Questo può andar bene per i primi tempi, quando ti sembra che non ci sia niente di male nel conformarti completamente allo stile di vita e a qualsiasi altra cosa riguardi l’altro, anzi, ti sembra l’unico modo di vivere. D’altronde, le donne vengono da secoli e secoli di educazione alla filosofia della rinuncia: ancora oggi siamo culturalmente spinte a pensare di doverci prendere cura del nostro compagno anteponendo i suoi desideri ai nostri (e ciò sarebbe buono se fossimo tutte lesbiche, perché in quel caso saremmo ricambiate per tutto il tempo in egual misura).
Io dico basta, basta, basta con questa solfa antidiluviana –e neanche poi tanto- che ci grava sulle spalle e da cui non riusciamo mai a svicolare, tranne che in quelle occasioni in cui , poi, veniamo etichettate come “strane”, “egoiste”, “libertine”, “cattive madri” e via discorrendo. Basta: è ora che i maschi imparino a prendersi cura di sé da soli e che la smettano di vederci come mamme sostitutive. E noi, che ci siamo sempre calate in questo ruolo, dobbiamo abolirlo e cominciare a vivere la nostra vita, non quella dei nostri compagni, fregandocene del lapidario giudizio che, come folgore dal cielo, ci colpirà attraverso gli sguardi disapprovanti di madri, suocere e uomini di altre generazioni.
Gli uomini, loro e noi, due pianeti diversi con differenti mentalità… non è vero! Siamo sullo stesso pianeta, anzi, sulla stessa piccolissima ed instabile barca; certo, abbiamo esigenze e sogni e pensieri e problemi che non sono gli stessi per tutte le persone, ma che non possono essere abbinati alla categoria uomini o a quella delle donne in maniera inopinabile!
In fondo, e qui si spiega perché io creda profondamente nella singletudine planetaria che caratterizza l’umanità, se siamo tutti alla ricerca di qualcosa o di qualcuno, nel viaggio sulla piccola barca, o se abbiamo tutti –gira rigira, rema che ti rema,- le stesse speranze, è perché siamo soli, inesorabilmente e, devo dire, stoicamente. E’ il nostro destino di anime (non a caso in inglese si dice soul). La solitudine con cui siamo costretti ad affrontare il mondo, paradossalmente, ci accomuna nella lontananza. E sapete qual è, a parer mio, la vera differenza tra noi tutti? L’atteggiamento con cui naufraghiamo. Cattivo, indifferente, spensierato, buonista, fatalista, affamato, ansioso, curioso, disperato, lucido… E’ l’anima luccicante, stella della nostra vita, che si aggira tra le altre solitudini, le cerca, le sfiora, non le conosce mai, e poi, come una bellissima ninfea, si ferma a galleggiare sull’acqua, da sola. Per questo bisogna preparare l’anima, in qualche modo. Darle tasche e orli resistenti, come a un vestito. Impastarla bene, senza lesinare sui condimenti. Insegnarle a nuotare, o almeno a fare il morto (strana associazione di idee), in caso di ammaraggio forzato.
E se arriva il ranocchio che vuole saltarle sopra, ecco la risposta consigliata:”No grazie. Sono single dentro.”