martedì 25 giugno 2013

Tutti giù per terra

Sottotitolo: Cosa diavolo succede quando si sviene?



Giovedì scorso sono svenuta.
In pizzeria.
E, grazie al mio bel vestitone leopardato, tutto lo staff di camerieri e pizzaioli ha potuto ammirare le mie pudenda scoperte quando le ragazze mi hanno sollevato le gambe per farmi riprendere.
Morale: in quella pizzeria io non ci torno più.

L’avvenimento mi ha però indotta alla riflessione. Cosa succede quando sveniamo? E perché ci capita questo fatto strano, di perdere i sensi e andare a terra come sacchi di patate? Sono quasi certa che agli animaletti non succeda…
Mi hanno detto che si sviene a causa della mancanza di ossigeno: il cervello si accorge della carenza, si spegne, e così noi cadiamo e torniamo orizzontali, come quando si dorme (o si nasce), in modo che il sangue possa circolare di nuovo in tutti gli organi e il corpo recuperi le funzioni vitali minime.
Non so se ho capito correttamente, ma ho la netta sensazione che il mio cervello si sia davvero spento, un attimo prima di che io cadessi giù: forse era stufo di ascoltare i miei pensieri.

E’ possibile. La mente non si ferma mai, e non solo la mia. E’ come un cespuglio di capelli arruffati nel quale tutti continuano a mettere le mani, chi per cercare di pettinare, chi per gonfiare ancora di più la situazione ed aggravare i nodi. Prima o poi una testa si stanca.
C’era un tempo in cui la parola svenimento era associabile a eventi molto romantici, quasi mistici: pulzelle e madame erano colte da mancamenti d’amore, sacerdotesse d’ogni epoca perdevano i sensi in preda all’estasi, persino Dante (un uomo!) usava lo svenimento come sotterfugio per passare da un girone all’altro dell’Inferno –anche se lui attribuiva il fatto a una compassione insopportabile nei confronti dei dannati.
Amore, estasi, passione… A quanto pare lo svenimento è indissolubilmente legato alla forza dei sentimenti. E, a quanto pare, è indissolubilmente legato anche al dolore.
Non è un caso se, in quel frangente, diventa “tutto nero” e i sensi ci abbandonano per un po’. Quando lo stress psicologico diventa too much, tanto che perfino il corpo lo rifiuta, allora è bene prendersi una piccola vacanza da noi stessi.

Ma si può, effettivamente? E’ davvero possibile assentarsi dal proprio ego, andare in pausa-pranzo dal lavoro della nostra vita, lasciare, infine, un biglietto con su scritto torno subito e appiccicarselo sull’anima?
Chissà. In fin dei conti, svenire significa non venire, non prendere parte all’appuntamento. Restarsene dove si è. Sospendere la paura, per qualche istante. Anzi, di più: svenire vuol dire passare da una condizione ad un’altra, arrivare a uno stato diverso da quello da cui si era partiti. Proprio come nell’estasi, nella passione, nell’amore… quando il sentimento ti cambia ed il transito è talmente impegnativo che anche il corpo ne è sconvolto. E allora… tutti giù per terra!!!
Stai a vedere che aveva ragione quel Dante…

Stai a vedere che forse forse lo svenimento non è una cosa poi tanto brutta. L’unica questione irrisolta è che, alla fine, quando si torna, si è comunque gli stessi di prima, i problemi sono ancora lì e hai pure fatto soffrire le persone da cui ti sei allontanato. Che razza di passaggio è quello che ti lascia uguale?!

Non lo so. Ma bisogna affrontarlo. Ciò che non uccide, fortifica, no? E poi svenire, o prendere le distanze da sé, ci permette di conoscere meglio il nostro io interiore, perché in quel momento siamo intimamente soli con noi stessi, ancora di più di quanto lo siamo nella vita “comune”: siamo come morti. Lì, in quel buio assoluto, ci si presenta una prospettiva che non avevamo mai considerato mentre l’urgenza delle cose quotidiane –il lavoro, la spesa, il nipote da tenere, la discussione, la visita medica- ci assorbiva e ci succhiava via tutta la luce.
E’ quando la spegni, quella luce, che capisci di non desiderare altro che riaccenderla.
A quel punto rinasci, torni in te e, se non ti ritrovi in un castello a struggerti perché Medoro se n’è andato, significa che sei rientrato nel corpo giusto. Uguale a prima, sì, ma con una piccola luce in più dietro gli occhi.
E, forse, un bernoccolo in testa in ricordo dell'esperienza.






martedì 18 giugno 2013

Una storia... così

I libri della vita




Questa è una storia così, come la volete voi, proprio come potreste desiderare che sia una storia.
Le parole sono volatili, ognuno può leggerle a suo modo ed amarle ed onorarle o disprezzarle tanto da volerle distruggere. La magia che il grande scrittore riesce a ricreare si manifesta quando le parole di lui o di lei ci conducono in un altro mondo, in un’altra vita, una vita che subito diventa la nostra.
Ma poiché io non sono una grande scrittrice, non aspiro a ricreare questa magia, quindi vi racconto semplicemente una storia… così.

Una bambina di sette anni, a cui piaceva molto disegnare, ricevette in regalo da una vecchia zia un libro dalla copertina blu, la cui immagine frontale raffigurava un albero e due paia di gambe –con i piedi attaccati- che penzolavano da un ramo.
La storia di Andi e della sua immaginaria Nonna sul melo piacque infinitamente alla bambina, perché lei aveva una vera nonna (assai diversa da quella del libro) e non aveva mai immaginato la sua vita senza quella presenza profumata di borotalco e di tempo. La finzione del libro le imponeva l’obbligo di pensare bene a tutto ciò che era reale e di iniziare a comprenderne le sfumature, dando ad ognuna un valore. La vecchia zia, nel momento in cui le aveva regalato il primo libro, le aveva fatto anche un altro incommensurabile dono: la possibilità di crearsi un’opinione.

La bambina di sette anni ancora non sapeva cosa significasse questo evento per lei, ma sentiva che la situazione doveva evolversi ed il passo successivo, combinato come per un matrimonio dagli astuti genitori, fu quello di recarsi nella biblioteca del paese.
La biblioteca si trovava al primo (o al secondo?) piano di un palazzo antico ed era governata da un anziano intellettuale dall’odore forte di camicia e di polvere. Egli cercava e appuntava libri e prestiti su un registro di straordinarie dimensioni, che apriva con un tonfo e richiudeva gelosamente non appena terminate le operazioni. La bambina fissava ipnotizzata l’insieme, percependo appena i particolari –il rado mobilio, i soffitti altissimi, perfino l’odore-, perché la sua attenzione era stata catalizzata sin dal primo passo dagli scaffali carichi di libri.
Dopo una breve ricerca tra i testi per bambini, che vennero giudicati insulsi e pure un po’ tristi, la bambina si volse a un armadio in cui i libri erano ammucchiati senza classificazione. E l’occhio le cadde su uno spesso volume rosa dall’aspetto sdrucito: qualcuno doveva averlo letto e amato molto, così la bambina lo trascinò fuori dalla scaffalatura e si mise a sfogliarlo, lì, sul pavimento fresco della biblioteca.
La raccolta completa del fumetto Mafalda la stregò tanto che, il Natale seguente, la famiglia gliene regalò una copia tutta per sé, nuova, grossa e pesante come quella della biblioteca (che ormai reclamava da mesi la restituzione del volume rosa).
Grazie a Mafalda, la nostra bambina conobbe la politica, la rivolta sociale, l’ingiustizia e il desiderio di giustizia, l’ironia, il sarcasmo,il femminismo, i Beatles. Il bibliotecario, però, permettendole di prendere in prestito quel librone di fumetti, più indicato per gli adulti che per i bambini, le aveva fatto anche un altro grandissimo regalo: la libertà di scegliere. E scegliere di leggere ciò che voleva fu l’involucro che permise alla bambina di capire che tutto quello che mettiamo nella nostra vita è frutto di scelte, non di casualità o fortune o divinità, ma di scelte personalissime e LI-BE-RE.

Dopo Mafalda vennero tanti altri libri, tanti, tanti quanti un occhio può abbracciare dentro una stanza bella grande, figuriamoci due (occhi).
Ma il “libro di volta”, ovvero il libro che avrebbe segnato un punto luminoso sul quale reggere tutta una vita di pagine e parole, capitò alla bambina –di nove anni- nel modo più inaspettato: in casa, un giorno qualunque in cui lei cercava disperatamente qualcosa da leggere che non fossero le etichette delle bottiglie.
Sul letto di  una sorella, buttato lì, c’era un libro giallo con un albero maestoso in copertina (un altro). Vederlo, leggerlo ed innamorarsi della storia furono un’unica azione-reazione. Da quel momento per tutti gli  anni a seguire, la bambina ebbe dentro di sé l’immagine ispiratrice di un Barone rampante che si ribellava alla regolarità della vita come noi la conosciamo e si arrampicava sugli alberi, senza mai scenderne, fino all’ultimo giorno della sua esistenza. Calvino, attraverso quel magico scritto, le aveva dato il sunto di tutte le cose che dovevano, dovevano esistere nel viaggio di ogni persona nella foresta solitaria che è la vita: passione, libertà, libri, amore, conoscenza, divertimento, disperazione, coraggio, sogni.  In poche parole, Calvino le aveva dato una perfetta, inimitabile, preziosissima  descrizione della vita e le aveva sussurrato l’immortalità di personaggi come Mino.

Oggi la bambina si è rovinata schiena e vista a furia di leggere, ma non smette di farlo, ed è contenta di avervi regalato i suoi primi tre libri della vita (anche se ci ho messo un po’ a convincerla a farlo, gelosa com’è delle sue cose). Da sempre ricerca una Nonna sul melo, una Mafalda, un Barone rampante con cui condividere passioni, sogni, amore, divertimento, libri, drammi; ne ha incontrati alcuni, altri li ha solo intravisti, altri ancora li ha spiati e, infine, li ha lasciati andare.
Tutto qui. La storia non ha nemmeno un finale: ve l’avevo detto, è una storia così. In fondo, su un pianerottolo cosa succede? Ci si incontra, ci si saluta, e poi ognuno apre la sua porta e se la richiude alle spalle.

Buongiorno, come sta?
Molto bene, e lei?
Anch’io, grazie davvero. Che caldo fa, oggi!
Vero? Uff! E la famiglia?
Bene… Mi scusi, ho l’acqua sul fornello.
Allora arrivederci.
Sì, certo. Saluti a casa!
E la vita torna dentro il libro, in attesa della prossima magia.


                                                 









martedì 11 giugno 2013

One, two, free!

Lettera ai bambini, per gli adulti




Eccomi.
La blogger con meno fantasia al mondo in fatto di titoli!
Qualcuno di voi avrà infatti riconosciuto nelle sei parole che connotano questo post il titolo di un’opera moooolto più onorevole ed educativa della mia, ovvero la Lettera sui ciechi per quelli che ci vedono di Dedis Diderot. Non ho nessuna intenzione di mettermi su un tale livello di sapienza, intelletto e dialettica. Solo, mi piaceva l’idea di scrivere qualcosa sui bambini in modo che arrivasse anche agli adulti, proprio come fa il grande illuminista nel suo saggio filosofico. P.S. Se vi va di leggere un libro, quest’estate, leggete la Lettera sui ciechi. Vi aprirà… gli occhi.

La figliolanza e l’allevamento della figliolanza sono argomenti per me terribilmente complicati, perché, sin dal momento in cui comincio a pensare alla maternità –a partire dalla parola stessa-, mi insorge dentro un’angoscia femminista da far paura. Infatti, come si può tranquillamente constatare ogni giorno grazie a quella scatoletta mangia idee, ormai piatta e un po’ inquietante, che è la televisione,sembra che:
A.       le donne del duemila debbano per forza dividersi in categorie del tutto svalutanti e “parziali”: nelle varie pubblicità di profumi dallo slogan incomprensibile, di prodotti per la casa e per il bambino, di cibi dietetici ma gustosissimi, troveremo la  sensuale, la donna manager, la narcisista, l’erotica, la donna-oggetto, l’ambigua, la mammina tutta vestita di bianco e azzurro (se ha un maschietto) o di bianco e rosa pallido (se ha una femminuccia).
B.       Concentrandoci sull’ultimo “tipo” di donna proposto dai media, si può soltanto intuire l’abisso di solitudine che si nasconde dietro tutti quei sorrisi e gli omogeneizzati e i pannolini ultra-assorbenti… Non credo che diventare genitori sia una brutta cosa, ma credo che diventare mamme (con la consapevolezza di doversi occupare da sole del neonato, e magari andare al lavoro sapendo di dover pensare anche  alla casa, una volta tornate) lo sia.
C.       Se questo sistema di vita non cambia, sarà automatico per i nostri figli e figlie comportarsi allo stesso modo, con i bambini che diventano padri-padroni e le bambine che li servono a tavola e si alzano di notte quando il primogenito strilla.

Ora, giunti al punto, vorrei indirizzare qualche utile consiglio ai nascituri, affinché capiscano già dal pancione, o dalla provetta, in che mondo dovranno albergare e quali sono le cose secondo me  veramente importanti di cui tener conto, se non altro, durante il soggiorno.

One: regola numero uno dell’essere umano doc. Innamorarsi ogni volta.
Ogni volta…qaundo?, mi chiederete. Bè, ogni volta che è possibile. Dall’asilo fino alla casa di riposo. Per una sola notte, per qualche mese, per una decina d’anni, dipende. Ma credo sia necessario avere sempre la luce accesa, da quel punto di vista. Sentite: la vita è talmente corta che è un delitto sprecare un’occasione di essere felici. E anche di soffrire. L’importante è essere dentro il grande gioco dell’amore. Anche se non si è corrisposti, anche se è sbagliato… Love will find the way, cantano i Tesla.
E la troverà sia che vi comportiate da maschi sia che v’insegnino a comportarvi da brave bambine, e potrebbe non seguire la via di cui vi hanno parlato a scuola.

Two: regola numero due. Avere almeno due passioni. Suggerisco l’abbinamento sport musica (tipo pallavolo-pianoforte, calcio-chitarra, rugby-batteria, golf-flauto traverso…). Ma va bene qualsiasi cosa, purché vi appassioni. Fate un corso di cucina, di computer, di snowboard, di sartoria. Cambiate interesse ogni mese. Siate inventori del vostro essere. Abbiate il coraggio di rompere i luoghi comuni sui generi sessuali e datevi a un’attività considerata prettamente maschile o prettamente femminile: ciò che conta è la passione, non la sponda.

Three, o meglio: free! Regola numero tre, essere liberi. Bisogna imporselo. Non è facile: siamo catturati da reti e gabbie molto, molto consolidate, che intrappolano la mente ed intralciano le azioni. Per questo bisogna essere liberi tre volte.
Esempio: ho voglia di cucinarmi un risotto, stasera. Ci metto dentro… banane, salsiccia e formaggio spalmabile. Qualcosa da ridire?
Altro esempio: come mi vesto per uscire? Abito corto, stile giapponese o una tenuta più scialla? Facciamo un mix!
Terzo ed ultimo esempio: ero etero, ma mi sono innamorato di un uomo che prima era una donna. Cosa faccio? Libero tre volte: sono un uomo, amo un uomo, se l’avessi conosciuto come donna l’avrei amato lo stesso.

One, two, free! Sembrano tre salti, anzi, sono dei salti, che dobbiamo fare innanzitutto nella nostra testa per imparare ad insegnare la felicità ai nostri figli, e non il modo più giusto di mettere etichette.
Le uniche etichette che agogneranno il vostro bambino o la vostra bambina, ricordatevelo bene, saranno quelle di innamorato o innamorata, mito di qualche passione, libero o libera. Accettato questo, love will find the way, nel genere e nel numero che lui riterrà opportuno.



mercoledì 5 giugno 2013

Una vita a pois


Paura dei veri colori



Spesso, andando per negozi (e non comprando quasi nulla), mi accorgo che il mio occhio miope è attratto dai colori più sgargianti e dalle stampe esagerate.
Giallo, fucsia, verde brillante, blu elettrico si mescolano a grossi pois e a motivi floreali tratti da un giardino surreale; il mix si ripresenta nel mio armadio quando cerco di riprodurlo con i capi che già possiedo.
E’ chiaro che poi sembro un pagliaccio, dato che non ho il fisico per potermi abbigliare così, ma ad un certo punto della mia carriera da stylist autodidatta ed autoinflittami ho considerato l’idea di vestirmi per il mio piacere e non per seguire i dettami della moda come un serpente ipnotizzato dal flauto dell’incantatore.
Da allora, il mio incantatore sono i miei occhi, che mi dicono quale abito è meglio per il mio benessere psicologico. Mia mamma, invece, ex sarta ma non ex modista (nel senso più “storico” del termine), mi aiuta a capire quali sono le forme e i modelli che valorizzano al mia figura a pera!

Prima di sottoscrivere questa collaborazione occhio-mamma, però, credo di essermi a lungo vestita in stile film muto, ovvero bianco-nero-grigio-che non dice niente. Sono anzi certa di aver evitato accuratamente il bianco, temendo un’esplosione al livello dei fianchi.
Con estremo dispiacere, devo dire che tante delle ragazze che conosco si vestono ancora così, come se fossero affette da quella strana sindrome per cui la vista è simile a quella di un cane. Ciò le spinge ad indossare solo capi basic, golfini di mia nonna, magliette tinta unitissima e, al massimo, jeans dalla forma indefinita. L’insieme non attrae certo l’occhio. Ma con questo non voglio dire che le donne debbano vestirsi per essere guardate, no. Sto solo cercando di capire perché siamo così…insicure.

Per l’uomo, anche la moda –o meglio, l’abbigliamento- è una questione di praticità e di semplice pudore: loro entrano in uno o due negozi, scelgono la prima cosa che sembra della taglia giusta e del materiale adatto alla stagione e fine. Prediligono la comodità e mettono in atto la decisione nel giro di pochi minuti.
Per le donne è diverso, ed è sempre più complicato. Ogni acquisto richiede lunghe riflessioni, prove, confronti, stime… che talvolta non servono a convincere la nostra psiche perversa e ci fanno uscire dal negozio senza aver comprato niente. Pace per la commessa sommersa da decine di maglioncini scollo a V, chiesti da noi un’ora prima: passerà il resto della giornata a rimetterli a posto e a maledirci in commessese. Le ringrazio a nome di tutte le donne per la loro pazienza di Giobbe e per le bugie che ci dicono, molto utili per la nostra autostima.
Mi chiedo se un simile atteggiamento mentale, ovvero quello di volere qualcosa ma di non sapere bene cosa o di non riuscire a prenderselo, si riproponga anche nella vita. Purtroppo, penso proprio di sì.
La vita è una vetrina piena di bei vestiti colorati; l’uomo, povero lui, ha una mente troppo elementare per approfittarne e si limita a vivere (ne parlo negativamente ma in realtà dovrei imparare dal mio uomo a vivere e basta, spesso e volentieri).
La donna, invece, sente che c’è qualcosa di più, sotto, ed è attratta dal colore, dal movimento, dalla luce. Ma poi non ha il coraggio di decidere, perché osare significherebbe esporsi e quindi rischiare di essere giudicata, criticata, ammirata. Il problema è che la vita ci chiama continuamente: a scegliere, a dare un nome alle cose, ad assaggiarle. Ed è un dovere morale –lo dobbiamo a noi stessi- essere abbastanza forti da saper decidere. Altrimenti è uno spreco di vita. Di bellezza.

Tutte le ragazze sono bellissime, e questa condizione esteriore non deriva da quanti ettogrammi di trucco, abbronzatura, capelli e unghie ci aggiungiamo addosso per sembrare attraenti, ma dal vero colore interiore che rilasciamo attraverso lo sguardo, le parole e, sì, anche i vestiti.
Mentre noi siamo attanagliate dalla paura –di soffrire?-, gli uomini vanno avanti e governano il mondo al posto nostro, scegliendo per noi. Proposta: questa settimana, ognuna delle ragazze che leggerà questo post prenda una decisione che rimandava da tempo e la sigilli con un abito divertente. Poi scattatevi una foto e caricatela sul mio profilo di FB.
Scommetto che sarà una galleria di veri colori e di donne vere, che sanno decidere per loro e non hanno paura di vivere a pois.