martedì 30 aprile 2013

La guzzamicizia


 Io propongo rosalinda






L’altra sera, durante un aperitivo in compagnia di alcuni amici assatanati, è saltato fuori un termine molto simpatico, che noi abbiamo rivisitato in “guzzamico”.
Il guzzamico, specie diffusa in tutto il mondo che si ciba…. meglio non dire di cosa, è una persona libera da legami sentimentali con i suoi partner sessuali; di fatto, è semplicemente uno che chiami nei periodi in cui non riesci o non hai voglia di rimorchiare, ma senti lo stesso il bisogno di scaricare le energie in eccesso in un’attività dilettevole e gratis.
Il guzzamico lo scegli tu, e non serve conoscerlo a fondo perché sia quello giusto: l’importante è che le regole del rapporto vengano chiaramente stabilite prima del rapporto stesso, altrimenti va a finire che uno dei due si innamora, e ciò non è consigliato in una relazione nata come guzzamicizia.
Ecco perché molte persone che frequento non vedono di buon occhio il fatto di “andare con uomini” in scioltezza: la mancanza di sentimento impedirebbe l’esecuzione dell’atto necessario alla stipula di una guzzamicizia, e perché ci sia il sentimento serve una previa conoscenza del partner. Ciò richiede più tempo di quanto un rapporto al fly conceda a due persone che, invece, non vogliono innamorarsi.

Da una parte, io non credo esista qualcuno che non vuole innamorarsi. Alda Merini, meraviglia delle meraviglie, diceva che per gli uomini l’amore è una parte della vita, mentre per le donne è la vita stessa, e purtroppo credo fondata questa nostra condanna all'infatuazione. Le ragazze che passano da un fiore all'altro, secondo me, in realtà sperano sempre di scoprire, all'interno della corolla su cui si posano, un pistillo a forma di cuore. Diversa è la questione per i ragazzi: presumendo che, quando una donna si lega, lo fa per ottenere un anello al dito e la garanzia che i propri ovuli non vadano sprecati, l’uomo sceglie sempre più spesso di non farsi “incastrare”, guzzando a destra e a manca fino a sessant’anni, età in cui comincia ad avere talmente paura di rimanere solo con se stesso che accetta la convivenza con qualsiasi patatina ancora fertile.
Il problema di base –le donne si innamorano, gli uomini no- si potrebbe risolvere se educassimo le nostre figlie a non credere a tutte le minchiate raccontate nelle fiabe come Cenerentola o Biancaneve, e a non considerarle nemmeno come miti irraggiungibili. A mio avviso, sia Cenerentola sia Biancaneve erano due ragazze senza spina dorsale, finite a fare le serve da casa loro a casa del principe.
Ai figli maschietti, invece, bisognerebbe insegnare la bellezza dell’innamoramento e dell’affettività, aiutando lo sviluppo di una sfera –quella sentimentale- che da sempre viene loro tacciata come prettamente femminile, emotiva, da evitare nelle conversazioni e scarsamente rilevante nella vita di un “uomo vero”.

Dall’altra parte, però, mi rendo conto che la situazione odierna, per quanto riguarda quella che sembra un’eterna dicotomia tra maschio e femmina, non è migliorata in seguito alle lotte per l’emancipazione della donna. Certo siamo più libere, più pagate e meglio istruite, ma il miglioramento è illusorio. Miliardi di ragazze vivono ancora all'oscuro del grande inganno esercitato nei secoli dagli uomini, ed anzi ne aiutano la buona riuscita continuando a pensare alla figura femminile come a un’entità predefinita, con attitudini naturali ben precise, ruoli imprescindibili e un’illusoria importanza sempre e comunque accostata all'esistenza di un uomo.
Quindi, non vedo perché una ragazza single, di carattere e consapevole delle proprie scelte non debba avere un guzzamico, ovvero una persona amica che soddisfi esigenze riconoscibilissime, al di fuori dell’influenza perbenista di famiglia e dintorni. Teniamo presente che, se un uomo guzza in giro, nelle varie fasi della sua vita verrà chiamato rubacuori, latin lover e scapolone, mentre se lo fa una donna ci sarà una sola parola con cui verrà etichettata, e non sarà altrettanto lusinghiera.
Io, in sostituzione, propongo rosalinda.

lunedì 22 aprile 2013

Addio al passato


Stelle comete al contrario



Una volta un ragazzo mi ha detto.”Amo tutto ciò che è retro.”
Mi è sembrato strano che un uomo affermasse questo: di solito i maschi dimenticano la parte retro-stante della loro vita, mentre le donne tendono ad affezionarcisi in maniera forse spropositata.
Come per i vestiti, ai quali sono legati ricordi adolescenziali e non solo, anche le cose che ci sono accadute in passato restano spesso nell’armadio, per poi saltar fuor nei momenti più inattesi. C’è chi gradisce ripercorrere il viale dei ricordi, di tanto in tanto, e chi invece –i maschi- non vuole assolutamente rivangare, affermando che proprio non riesce, che la sua mente non registra ogni dettaglio di tutte le giornate di una vita.
La mente di una donna, d’altro canto, sembra perfettamente in grado di farlo: chiedeteci come eravamo vestite alla comunione del cugino della figlia del prozio… lo sapremo con esattezza, accessori compresi. Le ragazze accoppiate ricordano senza sforzo alcuno l’abbigliamento del compagno in occasioni talmente remote che, ufficialmente, in pratica non si sono mai tenute. Le donne sono bravissime, altresì, a riesumare ciò che gli uomini dimenticano dopo pochi istanti e a riproporlo come motivo di litigio nei momenti in cui la relazione diventa n po’ fiacca.
Ci riescono perché in realtà non vorrebbero mai gettare i vestiti smessi -per una ragazza, un abito non “smette” mai, ogni capo rimanda ad avvenimenti ben precisi (a quanto pare, ognuno di importanza focale nel percorso di crescita della diretta interessata) e diventano oggetti sempre più vivi a mano a mano che accompagnano la storia di chi li indossa.
Che il pantalone anni Ottanta sia legato a una festa o a un funerale, che la camicetta vintage della mamma abbia partecipato a un rave o ad un ritiro spirituale… poco importa. Per una donna, un ricordo è ben più di un ricordo, ed abbandonarlo sarebbe come abbandonare una parte di se stessa. Piuttosto, si preferisce mettere una toppa, spruzzare l’antitarme, nascondere in fondo all’ultimo cassetto: in ogni caso, il vestito –e il ricordo- rimangono sempre lì, a portata di lacrima.
Gli uomini sono abituati a investire meno energia nel passato. Per loro, come ci insegna il buon Sid (bradipo de L’Era Glaciale), “vedo la foglia, mangio la foglia, finita la storia”, o qualcosa del genere. Per gli uomini, insomma, il passato è semplicemente… passato, finito, concluso, stop, adieu, sayonara, hasta luego.
Un modo di pensare alla vita molto edonistico, immanente, in certi casi progressista.
Un ragazzo non fa alcuna fatica a fare repulisti (o come dice il mio sexy architetto repulisting, e vada a farsi benedire anche il latino). Ciò che non interessa più finisce dritto dritto in un sacco nero, e pazienza se con quella maglietta avevi dato il tuo primo bacio.

Dopo tutto questo pistolotto, vi aspetterete che adesso io mi metta ad inveire contro il comportamento insensibile e sconsiderato degli uomini.
Invece, per una volta, mi trovo nella per me fastidiosissima posizione di dover dare loro gran parte della ragione.
Il passato, lo dice la parola stessa, è passato e noi dobbiamo accettare che lo sia. Non è un vestito che fa la storia, è chi lo porta che vive splendide avventure o guai inimmaginabili. I vestiti servono solo a farci sentire un po’ meglio mentre affrontiamo il carosello infernale della vita. Essere retrograde non ci aiuterà a superare il dolore di una relazione finita, e nemmeno accumulare roba perché crediamo che, se la perdiamo, perderemo un pezzo di noi.

C’è un fondo di verità, dentro questa paura. Ed è che, andando avanti, si lascia una scia. Crescendo, seminiamo amori, disastri, voti, liti e pic-nic, ed ogni altro tipo di suppellettile emotiva ed esistenziale. Ma dall’altra parte della scia c’è un foglio bianco, un armadio sgombro, un cielo pieno soltanto di ciò che deve ancora accadere. Proviamo a farci un pensierino: è il caso di liberare qualche appendiabiti per far spazio al futuro? Il rischio è quello di perdere (in questo caso sì, si perde) per strada un fantastilione di abiti straordinari, mai messi, o appartenuti a chissà chi, o appena usciti dall’atelier di uno stilista, che aspettano solo noi per poter provare un po’ di emozione.
Conservare alcune cose vecchie può essere saggio: gli errori del passato ci eviteranno di “errare” senza meta nella galassia saecula saeculorum, l’impermeabile a quadretti rosa e bianchi indossato una sola volta a nove anni giacerà per sempre nel comò del salotto buono –pronto a ricordarmi che l’infanzia è bella che andata-, le lettere d’amore di tanto tempo fa diverranno un incredibile cimelio…. quando i nostri figli, figli dell’era digitale, perderanno l’uso del pollice opponibile.
Ma, ragazze mie, rimanere agganciate a ciò che è stato sarebbe come cercare di prendere un tram il cui tragitto è stato abolito.
Ogni tanto torneremo, sì, torneremo a ripensare a quant’era bello correre a perdifiato fino a quella fermata e salire sentendosi padrone del mondo, ma se un uomo mi ha detto che ama il retro, forse è arrivato il momento per noi donne di guardare en avant.

Come stelle comete al contrario.

martedì 16 aprile 2013


Words' power

Sgrunf!


Si racconta che le sacerdotesse dell’antichità classica fossero donne dalla parlata ambigua, pronosticatrici di eventi ai quali forse nemmeno loro sapevano dare un senso ed un nome prima che avvenissero.
Lo dimostrerebbe il famoso episodio del soldato che, timoroso di lasciarci le penne in missione, andò dalla sua Sibilla di fiducia e ne ebbe un responso assai strano: Andrai tornerai non morirai in guerra, là dove la poca chiarezza è interna alla frase latina, che, a seconda della punteggiatura, si può leggere sia come una buona profezia sia come un presagio di morte certa (Andrai, tornerai non, morirai in guerra.)

Al giorno d’oggi, c’è chi dice che i ruoli si sono ribaltati e che siamo noi donne ad attendere ansiosamente una risposta da parte dell’uomo, e con quale fatica cerchiamo di interpretarne le parole “sibilline”! Una persona adulta, si lamentano le mie amiche, dovrebbe essere in grado di esprimere in modo limpido ciò che vuole o non vuole, ed anche di farlo senza troppi tentennamenti o arzigogoli linguistici.
Esempio: Qualcuno che conosco si è di recente deciso ad interrompere una relazione a distanza tutt’altro che salutare (o meglio, da salutare). La Persona che conosco si è infatti stancata dei monosillabi e delle perifrasi di un uomo abituato a lasciare che fosse la donna a decifrare i suoi messaggi, invece di fare lo sforzo di articolare dei discorsi coesi e coerenti.
Altro esempio: Yaia l’anno scorso ha frequentato un ragazzo che chiameremo Cotton Eye Joe. Quando dico che l’ha frequentato, non intendo quel tipo di rapporto tradizionale in cui si esce, ci si conosce e pian piano si diventa qualcosa. Loro si sono buttati a capofitto –e ben venga-, ma poi si sono ritrovati in una no fly zone nella quale l’unica cosa a non volare era l’esatta determinazione della loro liaison. Lei aveva paura di indurlo a chiarire (anche se ci ha provato), lui non aveva nessuna intenzione di sbilanciarsi, e quando lo ha fatto ha creato più confusione che altro.
Perché l’uomo, o almeno uno dei due partner all’interno della coppia, ha sempre tanta paura di parlare chiaro?
Se la mamma chiede al figlio quale condimento voglia nella pasta -il sugo o la pancetta-, il cucciolo saprà sempre cosa rispondere. La squadra favorita? Schierati come soldatini e pronti a difendere la formazione a costo della vita. Bionda o mora? Ognuno ha le sue preferenze, ma nel peggiore dei casi ti diranno:”Basta che sappia fare all’amore”, e ho usato una perifrasi garbata.
Dove finisce tutta questa sicurezza quando le domande sorgono in una relazione? Da dove deriva la convinzione che le parole comportino responsabilità e conseguenze inaccettabili?

Chi mi legge da un po’ sa quanto mi piacciano le parole. Sono il mio lavoro, il mio mondo. Le uso continuamente: non a caso, tra la laurea triennale e quella magistrale ho abbandonato il vecchio corso di lettere per studiare comunicazione. Amo indagare sul significato dei termini, spolpando ogni singola lettera come un chirurgo del fonema, certa che in qualche strana maniera nel suono si celi anche il senso, speranzosa quasi di ritrovare quel grugnito primordiale con cui i primi uomini e le prime donne hanno indicato una scintilla di fuoco, un fiore, un bambino,
Non so perché lo faccio. Ma a me le parole non fanno paura. E’ come se fossero…tutte mie. Forse dipende dal fatto che ne ho sentite tante dai miei genitori, di belle e di meno belle. Ma ora le possiedo. La parola Colpa…so come incassarla. Preoccupazione…è lo stato d’animo giusto prima di trovare un’occupazione. Nicola…il vincitore: alla fine ha vinto lui tra tutti.

Non nego che le parole facciano male. Per questo bisogna usarle “al millimetro”, con elevata attenzione lessicale ed avendo cura di cambiare tono da persona a persona. Quando iniziamo un discorso, dovremmo essere consapevoli dell’arma che impugniamo: ciò che diciamo è un pianoforte, ovvero uno strumento pesantissimo, delicatissimo, elegante fuori e complicato dentro, pieno di tasti e sfumature sonore, riflessi, pedali, tempi e libertà. Tutto questo è difficile da gestire, a meno di non esercitarsi molto spesso e con impegno. Nelle relazioni, poi, è ancora più difficile: ci si siede al piano in due, ognuno suona a modo suo, e non si segue uno spartito. Ogni brano porterà ad una meta indefinita, ad un felice ritorno o alla morte certa.
Non è necessario aver studiato latino, greco e solfeggio per imparare, sulla propria pelle, quanto sia arduo comunicare.

Le donne vengono considerate la parte della coppia più predisposta ad esprimersi. Certi studi hanno stabilito che una zona del nostro cervello (quella che ci aiuta a comunicare) è più sviluppata che nel cervello degli uomini.
Questo,a mio modesto parere, non dà ai partner il diritto di etichettarci come spacca palle che non smettono mai di parlare, né di arrogarsi il diritto di tacere. Il silenzio è una conquista che l’uomo è ancora ben lungi dal poter fare, dal momento che è completamente dipendente dalla donna da un punto di vista molto più materiale.
Forse gli uomini non parlano perché temono di assoggettarsi alle donne anche a livello mentale. Durante una sbronza, mio cognato Pitt mi ha confidato che secondo lui una cosa esiste solo nel momento in cui le si dà un nome. Al tempo ero d’accordo. Ora sono persuasa del fatto che non essere detti non corrisponde affatto a non essere, anzi, paradossalmente sono proprio le cose più importanti che non riesco nemmeno a scrivere!
Sarebbe necessario uno sforzo reciproco, dell’uomo e della donna, per arrivare a piccoli passi ad una comunicazione più autentica… magari partendo da un grugnito (al quale i maschi sono già abituati), magari dando ossigeno alla scintilla invece di soffocarla, magari smettendo di ignorare i fiori.
E chissà che non si arrivi al nome da dare al bambino.

mercoledì 10 aprile 2013

Randagia




Dire è come comprare un vestito a scatola chiusa


“Randagia”.
Così mi ha definito l’altro giorno una bambina di sei anni che evidentemente mi conosce meglio di quanto pensassi.
Randagia perché sono sempre in giro, a volte irreperibile nei meandri delle varie occupazioni con cui arrivo a fine mese, spesso persa tra cene, aperitivi e compleanni, vagabonda che non sono altro.
La mia vita è turbinosa, ma a tratti smagliante –sia per gli smile che danno un certo ritmo alle mie serate, sia per le smagliature provocate dagli eccessi.
Turbinosa, sì, come il vortice di Paolo e Francesca, con la sola differenza che noi non ci lamentiamo affatto di starci dentro.

Questa è la mia vita ed è anche, credo, quella di molte altre ragazze da marito (odio questa espressione) indipendenti e alla perenne ricerca di quel… qualcosa.
Sembrerebbe tutto splendido così com’è. Lo è.
E allora perché, nel 2013, c’è ancora chi decide di SPOSARSI?
Perché tante donne forti e autonome sognano ancora il giorno delle nozze da protagoniste e la torta a sei piani con in cima la scritta “forever”?

Qualcuno pensa che la risposta sia semplice: le donne non hanno mai smesso di essere romantiche. In realtà, per chi non se ne fosse ancora reso conto, hanno smesso eccome! Ormai noi ci sentiamo alla pari degli uomini, e potrebbe essere così se gli uomini non pensassero che questo svilisce la loro virilità anziché aprirla ad un mare di possibilità sconfinato.
Detto questo., rimane il mistero, il grande mistero della fede, ma non della fede cristiana o religiosa in generale: per me il vero mistero del matrimonio è legato alla fede nell’altra persona. Pensiamoci per qualche minuto: conosciamo mai fino in fondo la persona con cui stiamo? Siamo certi di sapere cosa si annida nel cuore del suo cuore, dietro tutte le esperienze, le speranze, i ricordi e i travagli? Eppure ci sposiamo lo stesso. Cosa significa questa parola? Sposarsi vuol dire promettersi, mettersi a favore di qualcun altro diverso da noi, e quindi non controllabile. E’ u po’ come sedersi al volante di un’automobile di cui non si è capito fino in fondo il funzionamento, o comprare un vestito su Internet senza provarlo. A scatola chiusa.
Perché la prova non è la convivenza, come qualcuno potrebbe affermare. La prova è adesso. E tra un momento. E tra un altro momento. Ogni giorno, ogni notte, ogni Natale, ogni anno per i prossimi …cinquant’anni?

Una cosa così grossa spaventa. E’ da pazzi. E allora perché, perché la gente ci crede ancora? Non è per il vestito bianco o per i fiori e la musica commovente, né per la cerimonia in sé. Chi si sposa, secondo me, o è molto consapevole o è un totale incosciente.
Mi piace pensare che le donne che dicono oggi facciano parte della prima categoria.
Una categoria di persone pronte a condividere una parte della loro esistenza con il Vero Amore, se pensano di averlo trovato, non nell’ottica del sacrificio di tutto il resto, ma in quella di dare e ricevere… quel qualcosa tanto randagio, tanto vagabondo che, a volte, non lascia spazio neanche a Dio.

martedì 2 aprile 2013

E se...


Io ho scelto di essere libera

Vi capita mai di chiedervi cosa sarebbe successo se aveste fatto scelte diverse da quelle che vi hanno portato fino a dove siete oggi? O come sarebbe la vostra vita se  vi fosse capitato qualcosa di molto distante da ciò che immaginavate per voi?
Che aspetto avrebbe, infine, quel gioiello –prezioso o di bigiotteria- che compone la nostra storia, con i suoi fili di perle e le applicazioni di paillettes che si scollano subito?

Sin dall’infanzia siamo costretti ad operare scelte: volenti o nolenti, il susseguirsi incessante degli events ci impone di prendere il toro per le corna, oppure di scappare, oppure di subire passivamente la carica. Dalla scelta del migliore amico, che a volte (per chi è molto fortunato) avviene tra i tavolini minuscoli dell’asilo, alla materia preferita (che si scopre di solito alle elementari), dal primo fidanzatino ufficiale alla difficile decisione di iscriversi ad una scuola superiore piuttosto che a un’altra.. da quando siamo in grado di soffiarci il naso da soli, e forse anche un po’ prima, la nostra quotidianità è oberata di ragionamenti o istinti o flussi indomabili che determinano quello che saremo, quello che siamo e quello che saremo stati quando qualcuno penserà a noi tra una manciata di lustri.
Era una buona donna, si dirà di alcune persone: ho sempre trovato questa frase un po’ equivoca.
Un uomo tutto d’un pezzo. Credo di non aver mai capito bene il sensi di questa immagine… E se uno in vita non è stato molto coerente, che diranno i postumi? Un uomo spezzatino
Nei necrologi confidenziali, quelli sussurrati nelle ultime file ai funerali, anche chi è stato un benemerito pirla viene compatito quasi alla stregua di un martire: Aveva un carattere particolare, forte. Un creativo : vale a dire che era un rompipalle da paura.
Una signora vivace, di spirito… un peperino. Uguale: ‘na zoccola.
Ma i vari pettegolezzi da canonica non conteranno più di tanto, per noi: primo perché non li potremmo sentire nel caso in cui ne fossimo il  soggetto, secondo perché –e qui vi voglio convinti- noi saremo fieri delle nostre scelte, pertanto impermeabili ai giudizi delle malelingue.

La parola scegliere deriverebbe da una serie di modificazioni che trovano la loro radice madre nel nostro amico latino, e precisamente nel verbo ex-eligere, ovvero eleggere qualcosa separandola dal resto. Quando si elegge qualcuno, di norma si tratta della persona più adatta a ricoprire l’incarico in questione, la migliore. Ciò significa anche trarla dalla massa e renderla altro da essa: migliore ma anche separato, staccato. Quando scegliamo, cerchiamo sempre di farlo per il meglio, ma non pensiamo mai che stiamo anche escludendo le altre possibilità, e che le stiamo “spingendo via” da noi.
E’ questa la parte dolorosa ed insieme follemente bella della vita: accumulare esperienze come perle di una collana, strappandole all’ostrica che le ha generate non senza rammarico per il gesto che compiamo; applicare lustrini al posto di quelli che si sono persi per via, lasciando indietro ciò che è impossibile recuperare; creare dal nulla un torchon fatto con le anime a noi più care, faticosamente selezionate a scuola, in gita, in viaggio, al lavoro, a tavola, al bar.

E se non avessi conosciuto quella bambina coi capelli ramati amante dei bruchi, tanto tempo fa? Come sarebbero adesso i miei rapporti d’amicizia? E se l’architetto sexy fosse finito in un’altra classe, alle scuole medie? Chi vivrebbe con me in questa casa, adesso? E se non avessi fatto il liceo classico… saprei leggere la realtà come sto facendo, o sarebbe più facile? O più difficile? E se avessi deciso di sottostare alle regole cattoliche, patriarcali e predestinanti che m’imponeva la cultura del luogo in cui sono nata e cresciuta, che tipo di persona sarei alla soglia dei trent’anni?
E se… E’ un incipit che non mi piace. Preferisco il classico: In una notte buia e tempestosa… E preferisco che, verso il trentesimo capitolo, la protagonista affermi: IO ho scelto di essere libera.
L’unica catena che porto è il punto luce.