venerdì 9 ottobre 2015

Pompa nelle casse

Ovvero: la parola preferita del cuore è...


Come tanti di voi sanno, è da quando ero alta un metro e una caramella che desidero fare la scrittrice. Non solo: l’ho proprio deciso, sentendolo nella mia natura, ed ora ho la prospettiva, in lontananza, di poter dare vita alla mia vocazione.
Ancora non vedo se si tratti di un miraggio o di qualcosa di reale: so solo che gli occhi non sono affidabili e che credo di più in ciò che sento.

La prima volta che ho partecipato a un concorso letterario nazionale è stato sette anni fa: si concorreva con un romanzo dedicato alle donne ed io vi passai sopra, letteralmente, notti e giorni travagliati, perché nel frattempo stavo affrontando un passaggio di indirizzo all’università. Forse è stato in quei momenti che mi sono resa conto davvero di quanto penosa possa essere la vita emotiva e neurologica di chi vuole scrivere! Inoltre, com’era scontato, non vinsi il concorso. La mia scrittura era così acerba che sarebbe stato più gradevole versarsi dell’aceto negli occhi che leggere dieci pagine del mio romanzo.
Però fu il primo.
Dopo quella storia, ne vennero tante altre; tanti concorsi mi hanno tenuta sveglia quando mi sembrava che l’intero universo stesse russando alle mie spalle, e tantissime volte (quasi il cento per cento) quello che scrivevo non era abbastanza per essere considerato, giudicato, letto. La pubblicazione era una chimera. Ormai, speravo solo che mi venisse data una risposta, come i cani che scodinzolano al semplice sentore della presenza del padrone. (Caspita, mi sono appena paragonata a un cane; dovrei parlarne con qualcuno, n.d.a.)
Ci sono stati momenti di grandissima pena, momenti in cui credevo di poter accettare le critiche mentre mi ritrovavo, poi, a piangere di nascosto; in altri casi, il silenzio era così chiaro e semplice da non darmi nemmeno le lacrime in cambio. Ma non c’è mai stato sconforto. Lo giuro. Ogni critica si trasformava presto in un: ancora. Ogni porta chiusa diventava un: comunque esiste una porta. Come per un amore che non può smettere di bruciare, il mio cuore mi diceva sempre: ancora.
E così è stato. Ho provato di nuov, di nuovo mi sono messa in fila alle Poste, tra le signore che si lamentavano dell’attesa e i loro amici del 1914 che si azzardavano a sbirciare (ancora) quelle caviglie da ragazze amanti del nylon –un materiale sexy, tutto sommato. Ho passato tante ore ad immaginare le loro storie, per poi essere improvvisamente risvegliata dalla chiamata del mio numero: toccava a me –bollettino, pesata, timbro… A chi lo mandiamo, stavolta?
L’uomo delle poste mi diceva sempre: se vinci, ne voglio un po’… Mi aiutava a bomba con i bollettini scritti in piccolo!

Ecco, infine. Qualcuno mi ha detto sì. Possiamo lavorarci.

Se tuo figlio vuole fare lo scrittore, cerca di dissuaderlo. Usa pure lusinghe e minacce d’ogni sorta; se persevera, mandalo da me: cercherò di dissuaderlo con tutti i mezzi a mia disposizione, compresi il sequestro e il digiuno (tanto ci sarebbe passato lo stesso). Se tornerà ancora più convinto, mandalo di nuovo da me: brinderemo insieme al nostro triste destino.
Meglio di una guerra, di una malattia, di un lavoro pesante: certo.
Una lotta continua, una patologia logorante, un lavoro durissimo: certo, pure questo è scrivere.
Esattamente come amare.
In entrambi i casi, però, quel masochista del cuore ignora il dolore e ripete una semplice parola: ancora.
Un disco rotto, un allenatore senza pietà, un coro da stadio, un marito insistente, il fraseggio di una canzone, il battito regolare di quel muscolo involontario: se siete innamorati, che si tratti di un uomo, di una donna o di una passione, una sola parola pompa nelle casse, ora e sempre.
AN-CO-RA.
Auguri, se avete deciso di ignorarla.

Auguri, se avete deciso di ascoltarla.

giovedì 1 ottobre 2015

Ma chi se lo aspettava!

Ovvero: a colloquio con il nostro adolescente personale. I




 nostri genitori ci vedono sempre come se avessimo al massimo quindici anni.
Ora che mi appresso al doppio di quella cifra, mi viene da chiedermi se la “me” adolescente sarebbe contenta di quello che le racconterebbe la “me” adulta. Se mai dovessi incontrare una ragazzina che sperava in una carriera rapida e in una vita da spirito libero, come potrei comunicarle che i suoi piani sono leggermente cambiati, nel corso degli anni?
Mi toccherebbe farla sedere ed avvertirla che la aspetta una dura gavetta; oltretutto, con che coraggio le direi che si è sposata con il fidanzato delle medie, dopo tanto cercare l’uomo perfetto?
Forse lei si metterebbe seduta e aspetterebbe che queste cose succedano.
Ma così non diventerei la persona di adesso.
Tutto quello che ho fatto, anche se lì per lì non è servito a molto, mi ha portata fino a qui. E se la mia adolescente non si fosse infatuata di tanti e tanti, probabilmente non avrei mai capito chi era il solo ed unico.
Certo, quella che immaginavo come una passeggiata tra fiori e coniglietti si è trasformata in un percorso arzigogolato, sicuramente in pendenza, con uno zaino bello carico sulle spalle, ma anche pieno di sorprese meravigliose, e se, ogni tanto, vien voglia di mettersi seduti a dire parole volgari contro tutto e tutti, la famiglia arriva da dietro e spinge avanti. Magari con confusione, qualche lavata di capo, una schiscetta esagerata…
Eppure funziona. Solo che per una sciocchina di quindici anni è un segreto, ed un mistero, come si faccia ad arrivare a trent’anni. Ed è giusto così. Una pagina alla volta, facendo ipotesi sul possibile colpevole. E alla fine, magari, la soluzione è una vera rivelazione.
“Ma chi se lo aspettava!”, verrebbe da dire.


E voi? Se incontraste il vostro “io” adolescente, che cosa gli raccontereste? 

martedì 22 settembre 2015

Moglie felice, vita felice





Moglie felice, vita felice.
Per certi versi, odio questo modo di dire.
Trasmette l’idea che tutte le donne con la fede al dito abbiano, come unico scopo della vita, quello di rendere un inferno l’esistenza dei mariti. E loro, i mariti? Non figurano neanche. Me li immagino davanti a un barbechiù, a darsi di gomito e a complimentarsi perché sono riusciti a chiudere, per cinque minuti, la bocca di una moglie capricciosa.
D’altra parte, ditemi voi se non è vero che una donna scontenta può logorarti dentro! In fondo, noi mogli non abbiamo che poche, semplici esigenze, tra cui l’attenzione totale del partner, la sua fiducia, l’assoluta abnegazione verso il nostro modesto io, nonché la venerazione, adorazione, idolatria ed il timore dello stesso da parte del fortunato consorte. Che ci vorrà mai?
In fine, non pretendiamo mica di cambiare la mente di un uomo, ma solo di guidarla con grazia e gentilezza stilnovistica attraverso gli impervi meandri del Fato, con il riconoscimento immediato e indiscusso di questo nostro ruolo da parte del marito.
Non chiediamo certo di chiacchierare con lui come faremmo con le nostre amichette, né di farci dipingere le unghie dei piedi da colui che ci ha viste in abito da sposa, e nemmeno che ci venga preparata la cena quando torniamo tardi. Chiediamo solo comprensione, sensibilità, se possibile lettura del pensiero; poi massaggi ai piedi, e, per quanto riguarda la cena, bè… quella sì, meglio trovarla pronta, altrimenti –passatemi il francesismo- per lui sono cazzi.
Ecco. Moglie felice, vita felice. E facile, soprattutto.

Fin qui ho fatto la burlona, la mattacchiona, per dire.
Ma, vecchie mie, il guaio è che ci sono donne per cui sarebbe sufficiente avere un marito che non sia agli arresti domiciliari, che non le meni o anche solo che si lavi ogni tot giorni. Ora, il marito-angelo-dio del sesso-colf e diario segreto de noantre non esiste, ma cerchiamo di non abbassare troppo gli standard, d’accordo? Vogliamoci bene. Meritiamo di più.
Dobbiamo crederci noi per prime.
Dopo, la cosa viene da sé: se ci crediamo noi, sarà semplicissimo trasmettere il concetto al Renzo della situazione. Con i giusti presupposti, crederebbe a qualsiasi cosa.
La sapete quella del carro di buoi, no?




martedì 15 settembre 2015

In giro da sole





Al giorno d’oggi, si sa, una donna è libera di andarsene in giro bella bella anche da sola. Non c’è più bisogno che il padre, il marito o un fratello l’accompagnino ovunque controllandone la moralità e la sicurezza. Ora, una donna adulta va alla scoperta del mondo quando e come desidera, comportandosi nel modo che ritiene più idoneo alla propria natura, e di questo dobbiamo ringraziare le prime signore che sono scappate di nascosto dalla loro camera, o le pioniere dei viaggi in tenuta da uomo.
Il coraggio delle nostre audaci antenate, però, sfuma miseramente nel buio delle odierne metropolitane, delle stazioni e di tutti quei luoghi ufficialmente aperti alle donne, ma troppo pericolosi perché queste possano usufruirne in pienezza.
Inutile cercare scuse: andare in giro da sole fa scago, soprattutto di sera, non parliamone di notte. Tocca camminare come se si stesse gareggiando alla gara di marcia delle Olimpiadi, slogandosi il collo per controllare che nessuno ti segua, e non appena si sentono passi dietro di sé il cuore –glum!- affonda fino alle tube per la paura.
E’ un vero peccato che, attualmente, una donna sia libera di portare pantaloni e gonne corte, di visitare posti lontani, di avere storie con chi le pare, ma… sia ancora bloccata dalla paura. Ci facciamo tutte un bel corso di autodifesa? E, chi può, si compri il ciondolo con l’allarme. Se qualcuno ha lottato per la nostra libertà di circolazione, è perché pensava che potessimo farcela.
Enne-bi: parole d’ordine, cautela, prudenza e buon senso. Di quello, noi donne ne abbiamo a bizzeffe.


martedì 8 settembre 2015

SEX AND THE PAESE- Scandali, inciuci ed altre simili amenità



Non so se vi ho detto, in passato, quanto il mio paese si nutra di scandali.
Ebbene sì, è così: dopo qualche mese di calma piatta (in cui è ovvio che il patatrac stava solo covando), in piazza si vedono capannelli di persone che confabulano come se ciò che stanno affermando/ascoltando qualcosa di molto riservato, mentre è evidente che non vedono l’ora di sgommare via e diffondere il verbo. Passando accanto a cotanta brulicante informazione, si scopre di solito che lo scandalo ha colpito l’amico della cognata del cugino dalla datrice di lavoro di tua sorella in Erasmus; altre volte, però, succede che ci si accosti con fare ingenuo al ciarliero gruppetto, non fosse che per sentirsi integrati, e ci si accorga con sgomento che tutti, improvvisamente, tacciono.
E rifuggono il tuo sguardo.
Oppure ti sorridano compassionevoli.
Indicazioni per l’uso: cancellate con una gomma mentale i visi delle persone che vi compatiscono e, se avete voglia di rivincita, dite davanti ai presenti qualcosa che lasci intendere che anche i loro figli sono coinvolti nello scandalo!

Lo scandalo…
Una tradizione italiana cattolicissima che può rovinarvi la vita, oppure rendervela un po’ più divertente. Di norma, è la giovane donna insospettabile il fulcro del pettegolezzo, meglio se foriera di gravidanza, meglio se benestante (i poveri non fanno effetto: in fondo, sono proletari… no?).
Per me, che una persona aspetti un bambino è scandaloso quanto un pedone che attraversa sulle strisce pedonali, o il fatto di pettinarsi con la riga a destra anziché a sinistra. Non mi sembra neanche d’aver sentito che da due persone non sposate sia nato un tricheco. Il problema non sussiste: sarebbe come mettersi a discutere sull’uso dell’innaffiatoio per dar da bere alle piante. Perché metterlo in dubbio?
Sarebbe più logico parlare di problemi reali, seri e urgenti, come l’accoglienza dei migranti nei nostri paesi. Se non sbaglio, un certo Francesco ha più o meno ordinato a tutte le parrocchie di ospitare una famiglia di profughi…
Sarebbe pure più interessante sentire per strada voci che parlano di relazioni felici, di matrimoni, di convivenze che vanno a gonfie vele e di coppiette appena nate che sprayano i loro nomi dentro un cuore sui muri di mezzo paese.
Ma le cose belle non fanno scoop.
Peccato.
Se non di un piattino di affari propri, poteva essere l’inizio di una tazzina di scandali un po’ più dolci.

Sarà per un’altra volta. 

martedì 1 settembre 2015

MAI TRANQUILLI




A chi non avesse chiaro il senso di un titolo come “Mai tranquilli”, voglio porre una semplice domanda: c’è stato un momento della vostra vita in cui abbiate pensato di potervi rilassare?
Perché, di solito, è proprio quello il momento in cui la Brutale e Volgare Signora decide di colpire.
E noi ci restiamo di sasso –per non dire altro-: il danno è reso più intollerabile dall’effetto sorpresa.

Uno ce la mette tutta.
Si studia, si lavora, si fa esercizio fisico, si fanno figli, ci si lascia, ci si taglia capelli e unghie dei piedi. E poi i vestiti da lavare, l’erba da tagliare, la presentazione power point da studiare… Uno si barcamena come può, insomma.
Ed ecco che, finalmente, arriva quel girono in cui ti piazzi in poltrona con un sandwich nel piattino, il libro nuovo in mano, il gatto sulle ginocchia… Stai per far scattare il poggiapiedi, e nel frattempo stili mentalmente la lista delle cose da fare: stirare fatto, meccanico fatto, meeting fatto, figlio fatto (non nel senso che lo hai drogato, ma che lo hai accompagnato quantomeno all’allenamento), dentista fatto, carriera fatta, amiche fatte (!!!), quindi…
Aaaah! Adesso sì, che mi rilasso…
Non arrivi alla terza riga del libro.
Il presagio di sventura è annunciato di solito dal telefono, ma tu già lo sapevi. Era troppo bello. Nell’aria vibrano le tracce del primo squillo, e non vuoi rispondere. Eppure una forza non contrastabile ti porta ad allungare una mano verso il maledetto cellulare: è fatta.
La pacchia è finita.
Il sandwich sa di cacca.
Il gatto si accorge del tuo cambiamento di umore e sceglie saggiamente la via del giardino.
Beato lui.
Nel momento in cui credevi fosse tutto a posto, la Brutale e Volgare Signora che è la vita ti piomba dentro casa e ti fa una bella sorpresa, che di solito ha lo stesso gusto del sandwich.
Non si può stare mai tranquilli.
E che possiamo farci, noi?

Fortuna che, tra una sfiga e l’altra, i libri si riescono anche a leggere, i film vengono visti e rivisti, gli amici veri restano, amore e sogni non abbandonano mai la nostra anima, e se si mette a piovere… poco male.
Faremo spallucce e ordineremo a domicilio.


martedì 25 agosto 2015

Il diritto di avere un bel vestito




Una delle caratteristiche del mio gruppo di alcolettura è che tutte adoriamo i vestiti.
Quando le ragazze mi chiedono dove ho preso la tal gonna o il golf, io mi vedo costretta a rispondere invariabilmente: al mercato. Qualcuno mi ha consigliato di rispondere sempre: da Armani. Ma le mie bugie mi si leggono subito nelle guance e così farei pure la figura della stolta. Sarebbe bello avere un abito di alta moda. Sentire una leggerezza nel tessuto, indossare un colore delicato e vivo, essere per una volta una specie di dea. Ogni donna merita questo, nella propria vita.

Un’altra caratteristica del nostro gruppo sono i problemi sentimentali.
Gli uomini che frequentano le mie ragazze sono un po’ come i vestiti del mercato: carini, sì, quasi belli; alcuni fanno stare bene per qualche giorno, altri si sciupano al primo giro in lavatrice… tutti finiscono nel pacco Caritas dopo un anno di uso accanito o dopo tre di ritorni di fiamma.
E’ triste. Ancor più triste se si pensa che i vestiti non fanno nulla per meritarsi un siffatto destino, mentre gli uomini…
Gli uomini ce l’hanno, la favella, la ragione, l’anima. Potrebbero dirti quello che vogliono, che non vogliono, che pensano di te. Potrebbero riuscirci, a farti sentire una dea, e non costerebbe poi molto. Non quanto un abito d’alta moda.
Ogni donna ha diritto a questo.

I vestiti del mercato si devono comprare per forza, e restano comunque amici fedeli di tante giornate e serate buie. Ma quando si parla di uomini… cerchiamo quel colore vivo, quella leggerezza, non meno, non meno di così. Perché farlo, se si può avere un Armani?
Ce ne sono, in giro. Nascosti sotto le felpe del grande magazzino e le paure due-punto-zero. Serve l’occhio da fashioniste: colore vivo, delicatezza, ci fa sentire una dea. Perché cercare di meno, se si piò avere un Armani?