martedì 23 dicembre 2014

Gli auguri per chi mangia lenticchie





Allora, ragazze e ragazzi, vi annuncio che, stanca dei soliti, falsissimi auguri da “sotto l’albero”, oggi vi proporrò delle alternative valide con cui rispondere a chi vi lancia il gatto nero del …tanta serenità!

Bene. Io non vi auguro armonia e pace interiore. Vi auguro di vivere veramente, di riuscire a capire cosa volete fare della vostra vita e di essere sempre affamati (come ci voleva Steve Jobs). Vi auguro letture avvincenti e musica, e di non preoccuparvi di disturbare il vicino ma di invitarlo a ballare con voi.
Non vi auguro l’essenziale. Vi auguro di vincere il primo premio alla lotteria Italia, e, in questo caso, di ricordarvi di me.
Non vi auguro di trovare il principe Azzurro, ma di incontrare una persona plebea che vi ami intensamente e che faccia sentire voi in vetta al mondo. Vi auguro di farci bene l’amore, spesso e con fantasia.
Non vi auguro un Capodanno figo, con cenone, spumante e baci sotto il vischio. Vi auguro una serata davvero divertente,  all’altezza di un anno da divorare fino alla fine del countdown, e di risvegliarvi il primo di gennaio senza ricordare immediatamente in che mondo ci tocca ricominciare. Vi auguro di stare in famiglia, o con chi ne fa le veci.
Non auguro la pace universale, ma di leggere il giornale, un bel mattino, e scoprire che tutti i terroristi, i mafiosi, i politici faccia-comeilculo, gli assassini, i pedofili, i violenti, i manipolatori, gli sfruttatori e i loro complici sono improvvisamente schiattati.

L’unica cosa che di solito si augura e che condivido è la salute: spero ne abbiate a pacchi, a carretti, a silos, e se già non ne avete molta vi auguro di vivere come stracavolo volete ogni fottuto istante che vi resta.
Infine, un augurio speciale per chi mangia ogni anno uva e lenticchie.

Magari stavolta funzionano.

martedì 16 dicembre 2014

TO BELIEVE OR NOT TO BELIEVE?




Quante volte, soprattutto al mattino, vi è capitato di ritrovarvi a cantare a gola spiegata quella canzone che fa…
I believe I can flaaaai…
I believe I can touch the scaaai…!
A me, molte: mi sveglio positiva, lo ammetto. Poi, di solito, le mie grandi aspettative vengono disattese (leggi: settimana di emme-erda), ma va bon. Almeno la cantatina me la sono fatta.
La scorsa settimana, però, ho avuto ben donde di riflettere seriamente sul “believe”, cioè sullo sfrenato desiderio/bisogno di credere in qualcosa, che l’uomo ha sempre avuto. Ho visto infatti due film assai stimolanti, in proposito: Magic in the moonlight e E.T.; in più, Glade, reduce dal concerto di Fabi, Silvestri e Gazzè, si dice ormai convinta che “l’amore non esiste”, ed io ci sto pensando.
Mi sono illusa, per tutti questi anni? Non era amore, quello tra me e l’Architetto Sexy, ma solo reazione chimica? Se non abbiamo l’anima, perché soffrire?
Domande esistenziali. Stamattina, niente I can flai, stamattina è l’alba di un giorno scettico, come la prof di latino e greco quando affermavo di non aver copiato la versione di Tucidide. (E chi non l’aveva copiata, dico io?? Se usciva quello, alla maturità, rimanevamo tutti bocciati. Garantito.)
Ieri sera, ad aggravare la situazione, in tv trasmettevano uno show sui Dieci Comandamenti, e lì ho raggiunto l’apoteosi del mio razionalismo (anche se ‘apoteosi’ forse non è il termine più adatto ad una dichiarazione di ateismo!). Ecco che, dall’ottimismo del mio cuore pieno di passioni –marito, famiglia, amici, scrittura e letteratura, feste!-, son passata in picchiata ad una rinnovata stima nell’evoluzionismo e alla certezza che, nell’universo, siamo  soli soletti (almeno, nell’universo che conosciamo).
Ci mancava giusto che il nipote scoprisse la verità su Santa Lucia! Un trauma –per gli adulti- da cui si capisce che l’infanzia dura tre secondi; così, quel poco di magia che ci tocca nella vita si esaurisce  entro pochi vagiti e non rimane che ricordarsi di quanto si era polli quando ancora ci si credeva.
Non è detto che tutto quello che non vediamo non esista, diceva il conduttore dello show di ieri sera. Come la verità, la giustizia, la paura, l’affetto. E invece, guarda un po’ Glade!, adesso ci credo che non esistano. Forse è così: l’amore non esiste. Ma esistiamo noi. La natura ci ha mollati qui e ci ha tolto anche la coda, le branchie, l’illusione. Ma non è ancora riuscita a levarci la nostra disperata volontà di essere felici, ogni tanto, per sbaglio, per passare il tempo, per non lasciarci vivere. La verità, la giustizia, forse non esistono in maniera tangibile, ma noi le abbiamo ideate, gli abbiamo dato un nome, le abbiamo costruite e rese socialmente utili, le abbiamo rese concrete. Come la paura, che ci incatena in casa, o l’amicizia, che ce ne fa uscire.
E l’amore? Anche quello è una nostra formazione mentale? Mi sa.
Che bella cosa che abbiamo inventato.

E l’abbiamo fatta diventare reale, altro che extraterrestri.

martedì 9 dicembre 2014

Poveri ma belli





Il clima, i ricconi e i sederi
fan tutto secondo i loro desideri.

Così recita un detto tipico delle mie zone, che ho gentilmente tradotto in italiano per il vostro piacere.
E’ un detto di un’onestà brutale, che si basa senza dubbio su una verità assoluta: non si può imporre ai tre protagonisti del proverbio di sottostare ad ordini che non provengano da se stessi.
Cosa vera, ma non del tutto. Per consolarmi della mia indigenza, ho partorito un pensiero che mette in croce chi può permettersi di comprare abiti nuovi a destra e a mancina, dando modo a noi barboncini di sentirci un po’ più sul pezzo: sarà anche bello poter acquistare un vestito nuovo per ogni occasione –Natale, compleanno, cerimonie varie, onomastico…-, ma così si è sempre soggetti ai dettami della moda. Il pover’uomo senza il becco d’un quattrino, perlomeno non ha di questi problemi. Che sia Pasqua o Capodanno, il risparmiatore seriale costretto a perpetrare il reato si rimette la stessa, linda camicia, che con il passare del tempo assume un interessante tono avorio, poi crema. Una cravatta originale (la prima volta che la si indossa), pantaloni ben stirati (con il buchino nel cavallo) e un cappotto che andava di moda ai tempi del Concilio di Trento.
E la donna povera? Codella si strazia un po’ di più al pensiero di non potersi mettere addosso un capo nuovo (che poi, se sul lavoro è una troia, mettersi addosso un capo non dovrebbe essere difficile. Ma di solito le donne povere lo sono per un motivo ben preciso). Tutto sommato, però, vuoi mettere la libertà di agghindarsi secondo il proprio stravagante gusto, ignare degli accessori da giornale e delle scarpe più trendy del momento? Non esistono, per una giovine, soddisfazioni maggiori di quelle derivanti dal sentirsi fyga nonostante il vestito dell’anno scorso, la pettinatura fatta in casa, le unghie smaltate dalla mamma. Maestre del trucco da tutorial, regine dell’autostima a tutti i costi, dive del riciclo tragicomico, le donne povere sono facilmente riconoscibili nel gruppo di una festa di Capodanno, poiché indossano abiti altamente improbabili spacciandoli con classe per vintage o per avanguardia fashion. Lo fanno con una dignità che sfiora l’arroganza, e il maschio apprezza. Respira, ed è anche sicura di sé: a lui basta questo, ve lo assicuro.
Chi se ne importa, poi, se sotto la scorza dura abbiamo un intimo spaiato, o se tremiamo interiormente di paura facendo il nostro ingresso al party. Quelle sono emozioni sincere, di cui né clima né ricconi vari ci possono privare.
Quindi, in ultima analisi, l’unico nemico di noi stesse risulta essere il sedere, inteso fortuna, grasso superfluo o diarrea. Cose simili non le possiamo controllare più di tanto, e nemmeno i ricchi.
Così l’odiato ritornello iniziale si tramuta in una breve chenson, che fa…

Con comodo i ricchi vivon beati,
begli abiti indossano, preziosi e firmati.
Ma se il cul fa trombetta
nella festa perfetta
solo loro rimangon scioccati:
a questo i poverelli son già abituati.


martedì 2 dicembre 2014

Bottomless: umanità senza veli


Domenica sera abbiamo fatto incetta di pizza ed accolto una nuova mascotte-barra-tassista nel nostro infido gruppetto.
Il giovane e baldo Maggiolone ci ha infatti onorate della sua presenza con un consiglio di prim’ordine: il bottomless, ovvero la corsa per le vie del paese senza gli indumenti a difesa delle proprie pudenda inferiori.
Idea stuzzicante. Soprattutto se teniamo presente che il nostro è un borgo completamente all’ombra (del campanile) e che tutti, qui, sono andati all’asilo dalle suore.

Da piccoli ci coprivano con il grembiulino e ci privavano del piacere di sbirciare sotto l’orlo del velo delle nostre pie educatrici (vi siete mai chiesti come avevano i capelli le monache?); poi è arrivata la tunica della prima comunione, e adesso… ci ritroviamo a parlare di correre desnudi per la via. Abbiamo levato il velo, anche quello da sposa o di Santa Lucia; abbiamo scoperto la testa ed ora un simpatico cialtrone ci propone addirittura di fare il paio e gettare pure i pantaloni. Sorvolando sul fatto che non era necessario, questo consiglio, data la nostra moralità dai contorni indistinti, posso dire che, da un lato, trovo davvero ficco che le persone si scoprano. Forever and ever. Perché nascondersi? E per cosa, poi? Siamo umani, e come tali dobbiamo mostrarci agli altri, in modo tale che ognuno veda le proprie bassezze alla luce del sole e si senta un po’ meno cacchetta.
D’altro canto, se si parla di bassezza non posso fare a meno di volgere lo sguardo ai piani bassi e mi chiedo come mai sia successa questa cosa strana, di essere educati per benino e poi rivelarsi bagascioni d’incredibile portata.
Forse non eravamo portati per la santità. Forse levarsi di dosso tutti i vestiti è stato un modo per distrarre l’attenzione degli altri, e far sì che non si avvicinassero troppo al nostro cuore.
Forse, più semplicemente, non siamo tanto peccatori. Che colpe sussistono nel voler amare ed essere amati? Probabilmente solo quelle del deprimersi, del mangiare fuori orario ed essere un po’ scortesi con tutti prima delle nove del mattino.
E’ bello pensare d’aver tolto degli abiti ed aver scoperto che, sotto, c’è una persona non proprio disprezzabile. Un giorno, la nostra autostima di persone umane arriverà ad un livello tale che correremo in canottiera e basta attraverso la piazza

E poi ci incontreremo dove fanno il TSO.

martedì 25 novembre 2014

Bocca aperta


Una delle caratteristiche delle donne del mio paese è che non chiudono mai la bocca.
E’ chiaro: abbiamo due grandi passioni, qui. Mangiare e parlare. Tanto. Di tutt’e due le attività.
Sembra che, anche in tempo di guerra, quando sarebbe stato meglio (o meno rischioso) tenere il becco sigillato, le donne di questi luoghi ci tenessero a far sentire la loro voce, litigando con le signore delle fazioni avversarie, aiutando i soldati alleati, portando rifornimenti sulle colline. Militando.
In epoche più remote, invece, quando la storia si confondeva con il mito, le donne erano talmente vessate dalle attenzioni non sempre gradite di dei e satiri da doversi trasformare in piante o corsi d’acqua, al fine di sfuggire alla violenza. Accadde a Dafne, divenuta albero d’alloro per scoraggiare Apollo, e ad Aretusa, mutata in fonte per non dover più subire il corteggiamento pressante da parte di Alfeo… E queste poverette erano pure ninfe!
Noi comuni mortali non abbiamo il potere di attuare una metamorfosi per dimenticare o cancellare i nostri problemi –ma, personalmente, se dovessi scegliere, vorrei essere un gatto. O una corrente d’aria. Non abbiamo nemmeno la tempra delle nonne, che sfidavano demoni ben più contingenti e pericolosi di quelli attuali. Eppure viviamo anche noi situazioni che ci fanno stare male. Yaia è senza contratto. Maggiolina soffre di scarsa autostima. Glade non riesce a prendere in mano la sua situazione sentimentale. Anita è stressata. Sole detesta il suo ambiente di lavoro. Una Persona Che Conosco ha delle brutte coliche ogni volta che rimane delusa. Ed io ho una fresia che sta cercando di buttarsi giù dal mobiletto, tanto le fa schifo vivere in casa mia.
Epoche diverse, difficoltà di natura diversa, ma il dolore è sempre dolore, anche se cambia forma, e dimensioni. Ed io credo che l’arma migliore che ci sia stata data per combatterlo sia la comunicazione. Matilde Serao insegnava a leggere alle giovani contadine in cerca di giustizia. Noi donne istruite del Ventunesimo secolo possiamo usufruire di vantaggi inimmaginabili. Le parole, la voce, la diffusione delle notizie.
Perché è così difficile dire apertamente quello che vogliamo e che non vogliamo? E’ così forte la paura di essere respinte, giudicate, denudate, ignorate? Ma non è proprio per questi motivi che dobbiamo parlare, per evitare giudizi, ignoranza e violenza?
Fino a che non apriremo le nostre bocche, nessuno capirà da che parte stiamo. E saremo costrette a tramutarci in ramoscelli e pozzanghere. E’ così che vogliamo scrivere la nostra leggenda? Stanca di soffrire, diventò una folata di vento fastidiosa.
No, grazie.
Io preferisco esprimermi.

Sarà solo una prerogativa delle donne del mio paese, ma a noi no piace tenere la bocca chiusa. 

mercoledì 19 novembre 2014

La società delle Conoscenti




Una volta, a ridosso di una certa guerra, una donna di nome Virginia ideò la creazione di una società detta delle Estranee, nella quale potessero riunirsi tutte le donne contrarie al conflitto.
Mi permetto di travisare questa magnifica ipotesi per abbassarla al livello delle nostre attuali esigenze, e me ne prendo la responsabilità –devo, date le altissime premesse: la donna fautrice delle Estranee era Virginia Woolf e la “certa guerra” era la seconda guerra mondiale.
Certo: non c’è paragone tra quello che dovevano affrontare le donne ai tempi del conflitto e ciò che viviamo noi, oggigiorno, con i nostri diritti a portata di mano –il voto, lo studio, la libera pratica di una professione e la libera scelta di un compagno…  Eppure, in qualche modo, sempre di guerra dobbiamo parlare. Quella presente, forse, è ancor più di trincea. Con la differenza che, noi, la trincea, ce l’abbiamo nella testa.
Per la paura di perdere i loro diritti, o un uomo, o del tempo (infine: per la paura), noi donne ci siamo spesso rinchiuse dentro una prigione mentale in cui il nostro ruolo è ancora ben definito e dove torniamo ad essere mamme, orfanelle assurte a principesse, addomesticate. Quando sentite che sta per succedervi qualcosa del genere, ed è qui che rivisito, da vera blasfema, l’idea di Virginia, cercate la compagnia di un’altra donna. Magari di un’amica che non sentite da un po’, una che chissà, non mi risponderà nemmeno... La società delle Conoscenti è già formata ed aspetta solo nuovi membri; l’unica clausola è che bisogna avvicinarvisi di propria volontà, ma non se ne verrà mai respinte. Le donne fiutano quando un’altra donna è in difficoltà, e l’aiutano in vari modi, tra cui:
-i drink
-le telefonate
-le camminate furiose, lamentandosi e sparlando di altre donne più attraenti
-l’ospitalità in casa propria
-i consigli brutali
-la condivisione dei film preferiti
-il gelato
-il sostegno economico
-il trasporto in vari luoghi, in caso di necessità
-lo scambio di libri
-la vivisezione delle relazioni e dei problemi che comportano
-il prestito di vestiti, sempre all'ultimo momento
-gli sfoghi per una brutta settimana di lavoro
-le versioni di latino modificate
-i drink.

La società delle Estranee nasceva dal desiderio comune delle donne di manifestarsi lontane dalla guerra. La società delle Conoscenti rende noto che le donne, nell'affrontare la guerra della propria vita e del proprio ruolo, non sono sole.
Sono luna, stelle, nuvole…



martedì 11 novembre 2014

Zanna Bianca è per sempre

Ovvero: Bambine che leggono, bambine che capiscono




Al ginnasio, quando la professoressa chiedeva una figura etimologica, tra i  miei compagni ce n’era uno che rispondeva sempre:”Vivere vitam”. A lui piaceva quella.
Io invece avrei voluto rispondere:”Leggere un libro”, ma c’erano due problemi che m’impedivano di farlo: la mia colossale ignoranza in materia di lingua latina ed il fatto che la figura etimologica da me ideata era sbagliata. Avrebbe dovuto suonare così, piuttosto: “Leggere una lettura”. Che però sarebbe risultata più come una specie di tautologia. Infine, un ‘meno’ assicurato.
Ma per me è la parola “libro” che sta alla lettura come la parola “vita” al verbo vivere. Ed è un modus vivendi (poi ho recuperato, col latino) caratteristico di tutta la mia esistenza, a partire dall’infanzia. Mi sono messa a pensare ai miei compagnucci delle scuole elementari: leggevano quasi tutti. Ricordo un gran rigiro di libri d’ogni genere, tra noi, e addirittura una mini biblioteca in classe, posta dentro un armadietto in cui regnava il caos dell’intero universo. Credo di aver sempre associato il concetto di “biblioteca” a quello spettacolo della natura, per cui i bambini trattano i libri come cose vive. E la situazione stava bene a tutti, femmine e maschi. Leggevamo le stesse storie: non c’erano libri sul calcio per i maschi e sulla moda per le femmine. Siamo passati tutti quanti per Pollyanna, Il giardino segreto, La piccola principessa, Capitani coraggiosi, Il richiamo della foresta, Ascolta il mio cuore ed altre decine di titoli senza mai fermarci a pensare se fossero “da maschi” o “da femmine”. Erano storie, e noi ne eravamo assetati.
Crescendo, ho notato che la schiera dei lettori con il cromosoma ‘xy’ si sfoltiva tristemente, benché –ne sono certa- non si trattasse di un fatto genetico. Il primo che prova a dirmi: “Sai, è normale, le ragazze leggono di più perché ci sono portate, è un’attività tranquilla che si può fare in casa e che si sposa bene con la loro indole riflessiva”… lo ficco in un baule e lo spedisco in un luogo esotico lontanissimo, come Edgar ne Gli Aristogatti. La lettura non si addice alle donne perché sono più tranquille: si addice loro perché, per lungo tempo, è stata l’unica cosa che potevano fare solo per se stesse. Magari nascoste, magati velocemente e in luoghi scomodi… sempre immaginando di tuffarsi in quelle avventure, di essere l’eroe, di diventare, per un paio d’ore, qualcuno che vive davvero la propria vita. La lettura era un’attività… nel senso che ci dava modo di essere attive, nel momento in cui ci veniva richiesto di rimanere statiche. Fai la brava, ordinava il papà, e noi …via, sotto le lenzuola con una luce da esploratore schiacciata in fronte, a leggere Edgar Allan Poe fino alle due di notte, quando la paura e il sonno prendevano un’unica rassicurante forma di guanciale.
Un’evasione in piena regola, eppure ad ogni nuovo libro a noi sembrava di tornare dentro il nostro vero “io”, di capire un po’ meglio chi eravamo e cosa volevamo fare della nostra esistenza. Da qualche decennio, per fortuna, e grazie alle tante donne che hanno combattuto per questo, i libri non erano più zeppi di modelli di bambine e di ragazze per bene, votate al sacrificio e alla cura della famiglia. Ora le protagoniste che incontravamo erano dinamiche, intraprendenti, forti e creative, ei protagonisti, a volte, erano teneri, insicuri, emotivi. Quelle che venivano considerate caratteristiche di un sesso o dell’altro si invertivano, mischiavano, perdendo la loro peculiarità di genere.
Ed ecco che, dalla lettura di Pippi, di Stargirl, di Violante e Cosimo mi sono uscite Yaia, Glade, Maggiolina, Anita, Sole e tante altre, con lavori duri o senza lavoro (altrettanto duro), legate alla famiglia, fuori casa, autiste arrabbiate di lunedì mattina, cuoche nella media, ancora schiave dei tacchi e del make up, ma lettrici, nonostante tutto.
Ci sarebbero tantissime cose da dire sulle donne che conosco e sulle bambine che erano. Preferisco però fermarmi a pensare a quanto erano forti e al fatto che, grazie a chi ha messo loro in mano un libro, hanno sviluppato quell’animo indomito ch’era in potenza nella loro personalità. Quanto a coloro che sono bambini e bambine adesso e a  ciò che possiamo fare per loro, dico che a scuola non c’è più l’armadietto pieno di libri: rimettiamolo. La sera, per far addormentare figli e nipoti, non accendiamo la tv davanti ai loro occhietti stanchi. Quello non è guardare veramente: è rimanere ipnotizzati. Perché non accompagnare nel sonno una bambina leggendole una storia? Farà sogni meravigliosi e domani, forse, avrà voglia di vivere la sua vita come la mamma le ha letto il libro.

Ai compleanni non si regalano più libri, ma giochi inutili che vengono accantonati dopo pochi gironi: al prossimo compleanno, regaliamo a un bambino Zanna Bianca. Zanna Bianca è per sempre.

martedì 4 novembre 2014

Che classe!



Alla fine di questa settimana andrò alla tradizionale festa di classe che si tiene ogni anno nel mio ameno paese.
Coa’è una festa di classe? E’ una gaia rimpatriata tra persone che hanno la stessa età, rimpatriata dalle seguenti caratteristiche: di anno in anno, i partecipanti si sfoltiscono e la spensieratezza va a farsi benedire man mano che ci si guarda attorno nel tavolo.
Perché, cari amici vicini e lontani, quando si prende parte alla classe è logico tirare un po’ le somme e prosi delle domande comode come un materassino sgonfio. Per esempio: la mia annata è composta di un centinaio di persone, più femmine che maschi. Di queste cento, una decina sono sposate. Mezza dozzina convive. Altre quattro o cinque persone hanno perpetrato la razza “ottantaseina” con dei figli, tutte femminucce (girls power continua). Un terzo di noi sono laureati. Di metà, non ho notizie certe.
Ora, prendete una manciata di trenta persone nel mucchio che vi ho descritto, gettatela in un ristorante e buttate via la chiave per un’intera serata. Cosa diavolo può succeder?
Oddio, il peggio è che ci ignoriamo o che un capo del tavolo spettegoli dell’altro capo mentre la cena è ancora in corso. Il meglio è che ci si diverta e si faccia nostro il motto La classe non è acqua, ma vino, come spesso è accaduto nelle edizioni precedenti. Il top dovrebbe raggiungersi con il canto dell’antico ritornello che chiama ad alzarsi le persone nate in gennaio, poi in febbraio, poi marzo… fino ad arrivare a dicembre, costringendole a omaggiare il coro con un brindisi (eufemismo).  Dopo due giri di questa canzone, il ritornello diventa un rintronello e si alzano a febbraio anche quelli nati a ottobre.
Per prepararsi a una serata così, bisogna superare anni e anni di complessi adolescenziali nei confronti delle ragazze magre e, in generale, dei ragazzi. I complessi relativi ad essi si possono facilmente risolvere pensando che a loro non importa un calippo di niente se una è gnocca o no: il requisito essenziale è che sia una donna, per tutto il resto ci sono i porno.
Quanto alle magre, rimedieremo con dei vestiti carini e con dei mantra interiori che ci costringeranno a sorridere e salutare e dire, con la faccia di bronzo:”Anche tu qui! Ti trovo bene!”, mentre rimpiangiamo di aver lasciato a casa un cuscino adatto al soffocamento.
Bene, e cosa ci diremo per tutta la sera? Da raccontare non c’è moltissimo: se resti in paese, la tua vita è di dominio pubblico, manco fossi Belèn (magari fossi Belèn). Forse è per questo che si beve molto: per superare l’imbarazzo.
No. Io credo che si beva molto perché per una maledetta volta, nella maledetta vita, magri o grassi, ricchi o disoccupati, sposati o single, ci si ritrova tra facce conosciute, tra amici: quelli della classe sono gente che vedi da quando la mamma ti allacciava ancora le scarpe e con cui hai condiviso maestre, bravate, aranci e limoni (mi sembrava brutto scrivere solo limoni). Andare alla classe è una garanzia di divertimento, almeno per qualche ora, almeno per una notte; la situazione ha del tragico, se si contano i dispersi e si pensa che è già il decimo compleanno della festa, ma anche del comico e del romantico, considerando gli aneddoti degli anni passati e i ritorni in autobus mano nella mano con chi non ti aspettavi. La prima volta che sono stata alla classe non era fidanzata con l’Architetto Sexy e così ho flirtato per tutto il tempo con un ragazzo, ma alle quattro di mattina, in viaggio verso casa, mi sono alzata dal mio sedile ed ho cercato lui, mio marito. Era uno straccio, come tutti d’altronde, ma io mi sono seduta lì accanto e forse è stato allora che mi sono chiesta:”Sarà solo un amico?”.
La classe, insomma, è un salutare bagno nel passato che ti fa capire un po’ di più chi sei e dove diavolo stai andando, in un catartico momento di convivialità estrema insieme a qualcuno che non ti rinfaccia la sbronza, il giorno dopo.

Niente da dire: che classe, il 1986.

martedì 28 ottobre 2014

Di più


Un cugino psicologo di Yaia le dice sempre:”Se vai al supermercato per comprare banane e poi chiedi meloni, non te la prendere se torni a casa coi meloni.”
Decontestualizzata, l’affermazione sfiora livelli di follia che neanche il Cottolengo, con tutto il rispetto. Ma si addice molto, d’altra parte, ai discorsi imparanoiati su tipici di una certa ora della notte, e tipici dii un certo gruppo di amiche. Il messaggio è semplice: noi donne vogliamo delle cose, eppure ci ritroviamo con altre, e ne siamo insoddisfatte.
Oddio, storia e letteratura sono piene di donne frustrate a causa delle loro scelte: Emma, Gertrude, Agrippina… Nel caso di Agrippina, credo che anch’io non avrei reagito bene, partendo con un nome del genere per affrontare la vita. Fatto sta che questi personaggioni eran di un’insoddisfazione da mangiarsi le unghie almeno almeno fino alla falangina –non voglio neanche immaginare cosa sarebbe successo se al tempo dell’imperatore Claudio fossero esistite le Phil Morris: probabilmente l’imperatrice se ne sarebbe infilata una in ogni pertugio del suo corpo e se ne sarebbe rimasta lì, stesa di fianco, a fumare dalla radice dei capelli e dalle palle degli occhi iniettati di sangue per il nervoso.
Eh, sì, mie care: quelle donne erano insoddisfatte proprio come lo siamo noi, anche se ci separano pagine e pagine d’altri romanzi e secoli di inenarrabili avvenimenti: Emma aveva sposato l’uomo sbagliato; dalla vita si aspettava di più. Gertrude s’era fatta suora, ma dalla vita voleva di più. Agrippina era così scontenta delle sue cose che pare abbia preso il toto per le corna ed avvelenato suo marito (peraltro, l’unico decente della sua dinastia).
E noi, allo stesso modo, diciamo di desiderare di più: il Vero Amore, un Lavoro, Figli… Eppure ci comportiamo come se volessimo meloni, non banane. Le nostre precorritrici, inoltre, erano quasi giustificate, essendo sottoposte ad ogni tipo di prepotenza fisica e mentale: se tuo papà ti voleva suora e tu ti rifiutavi, ti svergognavano alla stregua della peggior prosty, finivi in mezzo alla strada e come minimo, per mantenerti da sola, ti toccava farlo davvero, il mestiere.
Non prendiamo nemmeno in considerazioni l’idea di sposarsi con chi si voleva, o quella di prendere da parte il proprio partner ed esporgli tranquillamente ciò che turbava l’animo, come invece siamo libere di fare adesso. Adesso che le nostre madri hanno fatto la rivoluzione femminista per noi, adesso che possiamo svolgere le stesse professioni degli uomini –quelle da cui prima eravamo escluse-, adesso che il mondo è aperto davanti a noi, con le sue scuola, i teatri, le altre donne, le avventure e le rivoluzioni che non hanno potuto vivere Emma, Gertrude, Agrippina, Messalina (bè, forse Messalina alcune le ha vissute, buona donna).
Cosa stiamo aspettando? Perché ci ritroviamo, ancora, insoddisfatte? La crisi, la disoccupazione, l’essere single o l’essere sposate… non saranno solo scuse? Scuse banali e tristi per non andare nel mondo. Scuse per non affrontare la realtà, e cioè che tocca a noi.
Rimanendo sedute sul divano da mattina a sera a guardare stronzate da cerebrolesi stiamo offendendo la memoria di chi ha combattuto perché noi potessimo laurearci ed indossare i pantaloni senza esser tacciate di zoccolaggine; non inseguendo i nostri sogni stiamo gettando nel cesso le vite di tutte quelle donne che non potevano scegliere cosa fare di sé, del proprio talento, dei propri uteri e della vita in generale.

Mi autorivolgo un appello: Paola, svegliati. Decidi cosa vuoi e poi vai a prenderlo. E, al supermercato, ordina banane. Io voglio di più, e voi?

martedì 21 ottobre 2014

INTERVISTA: DONNE E LAVORO

…da cui si deduce che sarebbe meglio se tutte ci dessimo ai “lavoretti”.

Aujourd’hui parliamo di lavoro e di donne che lavorano. O che sono senza occupazione. Vi propongo un’intervista a due voci rilasciata da persone che non fanno parte della mia cerchia di amicizie più strette, vivono in paesi abbastanza piccoli e sono maggiorenni, ma sotto i trent’anni. Prima troverete  le domande e le risposte dedicate alla donna che, al momento, si trova senza contratto di lavoro, poi  quelle della donna attualmente impiegata.Non vi dico altro. L’intervista, data la sua natura e dato il tema crudelmente delicato, dovrebbe parlare da sé.


Donna disoccupata

Iniziamo con alcune domande per rompere il ghiaccio…
Sei una donna…?
Intelligente.
Il tuo uomo ideale tre i personaggi famosi?
Philip Seymour Hoffman.
Libro preferito?
Oceano mare, Baricco.
La canzone che hai ascoltato di più nella tua vita.
Rimmel di De Gregori.
Perché hai accettato l’intervista?
Perché è interessante ed io sono una persona curiosa.

Passiamo alle domande “vere”.
Qual è il tuo titolo di studio?
Laurea triennale.
Situazione abitativa.
Vivo con i miei genitori.
Da quanto tempo sei senza contratto?
Da circa quattro mesi.
Quanti colloqui hai avuto in questi mesi?
Tra i cinque e i dieci.
Il tuo titolo di studio ti sta aiutando a trovare un nuovo lavoro?
Assolutamente no.
Ti piaceva il  tuo lavoro?
Sì.
Cosa ti manca di più dell’essere una donna che lavora?
Il fatto di uscire di casa la mattina, nonostante la giornata, bella o brutta che sia. E l’essere riconosciuta dagli altri come lavoratrice.
Come si svolge la tua giornata tipo, adesso?
Cerco di non alzarmi mai troppo tardi, mi preparo come se dovessi uscire sempre e comunque, vado a dare una mano a mio fratello, in ufficio, torno a preparare il pranzo per mio papà, poi nel pomeriggio faccio la baby sitter o ripetizioni, e la sera vado da qualche amico, guardo film, leggo.
La disoccupazione influisce sulla tua vita privata?
Finora non molto, perché avevo da parte gli ultimi stipendi. Ma di certo  devo stare più attenta: invece di tre giri di aperitivi ne faccio solo uno ed esco meno a cena. Novembre sarà il primo mese in cui mi troverà realmente senza stipendio…
Hai handicap fisici che ti potrebbero causare problemi a livello lavorativo nei prossimi anni?
Sì.
Se potessi scegliere, che lavoro faresti?
La bibliotecaria.
Cosa volevi fare da piccola?
La maestra. E la mamma.
Pensi di essere pronta ad avere figli?
Più che essere pronta, mi piacerebbe.
E se tua figlia, un giorno, rimanesse senza lavoro, cosa le diresti?
Se lasciasse il lavoro perché non le piace, non la forzerei. Non amo l’idea di imporre qualcosa a qualcuno. Ma se venisse licenziata, le direi di continuare a sperare: sono sempre stata convinta che, se una persona è capace, alla fine ce la farà.


Donna lavoratrice

Domande per rompere il ghiaccio…
Sei una donna…?
Poco femminile.
Uomo ideale tra i VIP?
Non mi viene nessun nome!
Libro preferito?
Oceano mare, Baricco.
Canzone più ascoltata.
Tutto Ligabue.
Perché hai accettato l’intervista?
Perché voglio diventare famosa!

Domande “vere”.
Titolo di studio?
Laurea triennale in scienze delle merendine.
Situazione abitativa.
Convivo.
Da quanto tempo lavori?
Dal 2009.
Quanti colloqui hai avuto prima di trovare lavoro?
Nessuno, sono una raccomandata.
La laurea ti ha aiutato a trovare lavoro?
No.
Ti piace quello che fai?
A tratti. Tendenzialmente, direi di no.
Cosa ami di più dell’essere una donna che occupata?
Lavoro in un ambiente maschile, quindi posso essere tranquillamente aggressiva e tirare fuori le palle.
Giornata tipo.
6.45,  sveglia. 8-18, ufficio non stop. Poi commissioni varie, cena (possibilmente non cucinata da me), divano, tv, lettura a letto.
Potendo scegliere, che lavoro faresti?
Libraia o commessa in un atelier di abiti da sposa.
Che lavoro volevi fare da piccola?
Giuro che non lo so.
Quanto influisce il lavoro sulla tua vita privata?
Molto. Sono una che si porta a casa i problemi, quindi non mi rilasso mai e tendo ad essere nervosa anche con il mio partner.
Handicap fisici?
No. Ho le gambe corte, ma questo non dovrebbe influire sul mio lavoro!
Pensi di essere pronta per avere figli?
Ad oggi e a quest’ora esatta, ti dico di sì. Poi domani vediamo.
Cosa dire a una figlia che svolgesse il tuo stesso lavoro?
E’ un buon lavoro, ma Take it easy!





martedì 14 ottobre 2014

La chimera dell'uomo single normale


Oggi sarò bre…!
Scherzone.
Allora, oggi parlerò molto concisamente degli uomini normali: ragazze, lo so che da qualche bell’anno siamo tutte convinte che non ne esistano, ma non è così. Ce ne sono addirittura di furbi!
Il mio Architetto si è offeso nel vedere che in ogni post mi scaglio in picchiata sul suo genere, ed è per questo che oggi voglio avventurarmi alla scoperta degli uomini single-normali di mia conoscenza, esaltandone alcune caratteristiche molto apprezzabili anche per le mie amiche single. Ecco i miei esempi concreti:
-Il Tego è un bel ragazzo e non se ne vanta. In più, ha un lavoro vero. Ditemi voi se è poco.
-Il mio amico Davide ha un ottimo lavoro e fa delle battute sbragate che fanno davvero ridere a crepapelle, a volte. Altri due buoni motivi per conoscerlo.
-Un altro Davide single, amico di mio marito, è giovane e ciò è positivo, perché prendendolo adesso si potrebbe plasmare a propria immagine e somiglianza. Inoltre, si affeziona facilmente.
-Il mio amico Jo è parecchio acculturato. Ci puoi parlare di qualsiasi cosa. Da non perdere.
-Un altro mio amico, Carlito, sa far tutto. E’ super capace e dinamico, e sembra sempre abbronzato.
-Uno dei fratelli di Yaia corre anche per ventidue chilometri di fila. E sa fare la birra.
-Un amico di sorella. Infermiere, molto esperto di computer, simpatico. What else?

Ragazze, ne ho trovati sette, di uomini single che conosco e che non mi diano l’idea di essere completamente inaffidabili. In tutta onestà, è stata durissima. Vorrei sapere da mio marito a chi si riferiva, quando parlava così infervorato dei tanti uomini normali e disponibili di sua conoscenza…
La sfida è lanciata.



martedì 7 ottobre 2014

Chi ha paura della sfiga nera?




Se il contrario di sfortuna è sfortuna, ne consegue che il contrario di sfiga è… e sappiamo che la donna contrassegnata da tale ortodosso aggettivo è spesso una che la dà a chiunque, proprio come la Dea Bendata della Fortuna, che dispensa i suoi servigi un po’ a casaccio –‘ndo cojo, cojo, insomma.
E’ cosa nota, d’altro canto, che la signora Sfiga ha una modalità d’azione ben più metodica: stiamo parlando di una escort molto più esigente, un tipo di bagascia che seleziona i suoi clienti in un ristrettissimo gruppo di fedelissimi, i nati sfigati.
Non prendiamoci in giro: se è stato inventato il detto Nascere con la camicia è per un motivo fondato sulla realtà, e cioè che alcune persone partono bene, nella vita. Altre, invece, son nate a stento con la canottiera, ed è su quelle che la Sfyga (leggi sfaiga) si abbatte ciclicamente, prendendo la mira, neanche avessimo scritto in fronte  Tu ammazzi un uomo morto.  E’ un po’ come per i capelli. Se vuoi farti i boccoli devi partire da una base riccia, se vuoi allisciarti la chioma, invece, devi prima asciugare dritto col fono. Ecco, io sono nata con la base asciugata sfigata. La mia parrucchiera in quel momento aveva il ciclo e ha deciso di rendermi i primi trent’anni di vita un casino totale, senza possibilità di rimborsi.
Platone era convinto che l’educazione contasse poco o niente, per il destino di un uomo, e che da un contadinotto potesse nascere un grande condottiero. Evidenziamo pure la parola destino: ognuno, a detta del venerabile Platone, nella vita potrebbe diventare un togo di prima scelta, perché se nasce “oro” sicuramente non può trasformarsi in “argento”, e se uno nasce cippalippa di certo non mi diventa il genio della lampada.
Io sono sempre stata contraria a questa visione delle cose, poiché mi toglie il controllo che penso di avere sulla mia esistenza e mi mette il dubbio che sia tutto inutile. Però è un pochino bello, a volte, immaginare di poter sbocciare in qualcosa di più grande, un giorno. E’ un po’ come dire: se sono un talento nel canto, prima o poi diventerò cantante. E’ inevitabile. E’ la mia natura. Questo cozza contro il concetto stesso di sfiga, perché ci offre la possibilità di allontanarcene: anche se sei nato in una situazione sfigata, non è detto che tu debba rimanerci per sempre.
Ecco la ragione per cui, ad una certa età, bisogna porsi alcune domande, come, ad esempio: cosa voglio fare per il resto della mia vita? Come voglio trascorrere i prossimi giorni , mesi, anni? E’ meglio portare i capelli lisci o ricci? Sono questioni di un certo spessore, che si accompagnano alla nostra personale natura –bisognerà pure darle un motivo scatenante, a questa povera natura, per uscire finalmente allo scoperto! Il difficile è slegarsi dalla paura che famiglia e società ci possano giudicare per le scelte che facciamo, e che la sfiga possa interferire nei nostri piani. Un conto è partire da una base sfigata, un altro è partire da una base vigliacca.

Non penso che a questo Platone ci abbia mai pensato. Eppure era un uomo: di vigliaccheria doveva saperne un carretto… 

martedì 30 settembre 2014

La speranza è la penultima a morire



Spes ultima dea, recita un proverbio latino da noi conosciuto come La speranza è l’ultima a morire. Non ci siamo rassegnati a immaginare la nostra luccicante illusione di un futuro migliore nelle vesti dell’ultima divinità a cui possiamo rivolgerci.
Già, perché l’ultima tra tutti gli dei, e sono tanti, dev’essere veramente incapace. Una Pollon che non riesce mai a portare a termine le missioni. Altro che polverina magica: alla nostra speranza serve un’endovena di caffelatte con i Plasmon e qualcuno che le canti nelle orecchie “Io crescerò…la-lalalalalà-lallà…”
Spes ultima dea. Partiamo male, anche se il motto vorrebbe infondere un ottimismo estremo. Secondo me, tra l’altro, la speranza non è l’ultima a morire. Le ultime a morire siamo noi, nel momento in cui ci arriva la batosta numero enne, dritta dritta sui denti davanti, alla fine di una relazione che credevamo degna di considerazione.
Scrivo questo triste post in onore delle varie situazioni che stanno vivendo in questo periodo le mie care amiche: purtroppo, sembra si sia diffuso il virus della maritatite, ovvero della fiducia negli uomini maritati, conviventi, o con figli.
Premetto che auguro a tutte di risolvere magnificamente le rispettive situazioni: io voglio solo che le mie ragazze siano felici. Come spettatrice obiettiva, però, non posso fare a meno di iniziare a lucidare gli argenti, soprattutto i cucchiai e i cucchiaini, e di prepararmi per la raccolta dei pezzetti (conseguenza molto probabile della batosta numero enne e uno).
Abbiate pazienza: io non aborro gli uomini impegnati. Anzi. Sono la metà di uno di essi, quindi devo mantenere un livello accettabile di fiducia nella categoria. Una Persona Che Conosco, per esempio, ritiene che ogni donna maritata sia anche cornificata. La questione mi interessa relativamente: credo che me ne accorgerei, e se così non fosse…occhio non vede, cuore non duole!
Il punto di oggi è: perché tanti uomini sposati, conviventi o con figli flirtano e si avventurano tra le lenzuola di altre donne, quando hanno già una donna pronta all’uso, a casa loro? Risposte possibili:
-non sono felici con la compagna
-stanno attraversando una crisi personale
-non riescono a vivere un rapporto monogamo perché A) hanno avuto un modello familiare poco affidabile, B) hanno avuto un trauma da abbandono in età prepuberale, C) la natura li ha fatti traditori.
Subito dopo, ci chiediamo: alla luce di queste semplici considerazioni, perché uomini siffatti continuano ad iniziare relazioni durature e addirittura a sposarsi e a fare figli? Forse per un egoistico desiderio di sicurezza, conferma e stabilità? Ma i signori non saranno anche un po’ masochisti nel tornare ogni sera in una situazione che non li rende felici?
E noi donne… Veniamo a noi. Perché, presto o tardi, ci imbattiamo in un uomo sposato e non lo evitiamo? Le ragazze mi dicono che si tratta d’amore. Su questo non discuto. Qualcuno però mi ha detto che c’entrano anche le probabilità: diventando più grandi, le possibilità di incontrare uomini liberi si riduce via via, e quindi è inevitabile avere a che fare con mariti insoddisfatti, conviventi in crisi, papà che non trombano da almeno nove mesi. E le donne che ci sperano, a quel punto, sono innamorate o sono solo le amanti?
Anche qui, tutto è relativo. Sei l’amante fino a che lui non riconosce pubblicamente di amare te. E’ un po’ come essere scrittore e farlo per professione: finché non sei riconosciuto dal pubblico, rimani un po’ l’amante della letteratura e basta, e con questo venerabile titolo non ci campi.
Bene, finché lui non lascia la moglia, non viene via di casa e non parliamo nemmeno dei figli, stiamo vivendo una storia che non assurgerà all’Olimpo dell’eterno. Dobbiamo decidere noi, poi, se ci sta bene iniziare una relazione con delle persone così.

Come sempre, ho fatto di tutta l’erba un fascio, ma c’è un motivo preciso: ho sentito raramente di storie nate con questi presupposti, che siano poi diventate Grandi Amori. Solo quella tra Banderas eMelanie Griffith, forse. La fortuna che l’uomo dei nostri sogni mandi a puttane la sua vita per noi capita molto di rado, purtroppo, e ciò significa che chi ci spera ancora si farà male.
Ed io non voglio il male per le mie ragazze.
Però, non si sa mai… i latini dicevano pure Credo, quia absurdum.
Ci credo, perché è assurdo…



martedì 23 settembre 2014

La donna è rossa





E’ il primo giorno d’autunno, ed io mi sono fatta i capelli rossi.
Veramente è stata un’idea di Glade: lei se li è fatti color cognac (tanto per non allontanarci troppo dal tema alcolico). Li volevo anch’io così, ma, dato che parto da una base scura, i miei riccioletti son venuti fuori color Tavernello.
E chissenefrega, direte voi.
Giusta osservazione.
L’argomento tricologico mi serviva solo per introdurre il rosso, e l’autunno. Molti pensano che l’autunno sia una stagione triste e niente affatto sexy. Ricomincia la scuola, fa più fresco, sono disperatamente finite le scampagnate al mare.
Però, secondo me, dipende tutto da come uno vede la vita. C’è chi osserva le foglie secche e le trova solo secche, chi le vede giallastre, chi non ci fa nemmeno caso.
Noi donne le vediamo rosse.
In effetti, il colore femminile per eccellenza, secondo me, non dovrebbe essere il rosa, ma il rosso. Ed evitiamo, per favore, il classico, scontato riferimento alle mestruazioni.
La donna è rossa per vari motivi: è rossa perché è sanguigna, perché vive di passioni infiammanti e perché spesso si pittura labbra, capelli e unghie di quel vermiglio tono. L’uomo, quando si abbiglia di rosso, sembra soltanto natalizio.
Ma la donna non è, come hanno sempre voluto farci credere, tutta fuoco e sentimento, no: noi siamo rosse anche dal petto in su. Abbiamo il cervello che è come il camino di un vulcano, da tanto che lo usiamo; siamo rosse negli occhi e pronte alla battaglia; siamo rosse in quella zona della mente dedicata alla politica –checché se ne dica, noi donne siamo troppo comuniste.
E’ inutile negarlo: la donna è rossa. Fa società con le altre donne, è generosa, impavida, e mette le persone davanti ai soldi.

Io ho tirato in ballo la politica (a me piace sbilanciarmi, senza voler offendere chi la pensa diversamente), ma in realtà sono certa che la donna sia di più di un meschino gioco delle parti all’italiana: la donna è super partes. Non vede colori diversi: la donna vede rosso.
E in questa sfumatura magenta ci riuniamo tutte sotto la stessa stagione, che trova il suo punto di forza nell’autunno, un periodo dell’anno così banale, blando, sbiadito…che si adatta perfettamente al nostro sguardo di pittrici indemoniate.
Quando vedi la vita come una pagina bianca su cui colorare a tuo piacere, è difficile che una stagione ti faccia proprio schifo.

Com’è bello essere noi.

martedì 16 settembre 2014

Astinenza da: tutto


Ogni giorno, nel mondo, le persone si svegliano e sanno che dovranno privarsi, per l’ennesima volta, di qualcosa.
Non ci sono leoni o gazzelle in questa storia, ma solo impauriti topolini brulicanti –noi, le persone- che per un’infinità di ragioni ogni giorno fanno propositi di astinenza da qualcosa. La paura di non essere abbastanza belli, sani o puri ci porta, every day every night, a rinunciare a tutto ciò che ci può far male. Un esempio? Io. Un mese fa ho deciso di mettermi a stecchetto e di ignorare i cibi grassi. Ad oggi, la mia vita è una valle desolata, intervallata da acini d’uva e e bicchieroni di thè verde, che solo l’Archy riesce a rallegrare con le sue calorie naturali.
Tra le mie amiche, l’astinenza va molto di moda. Glade, dopo essersi fatta accorciare i capelli da suo padre, non vuole più contatti con gli uomini per almeno un mese. Una Persona Che Conosco si è convertita alla sigaretta elettronica; motivo: abbandonare il fumo definitivamente. Yaia, a periodi alterni, fa voto di sobrietà prolungata. Maggiolina, per evitare il traffico mattutino, ha cambiato il suo orario di inizio al lavoro. Insomma, tutte, a quanto pare, abbiamo qualcosa da cui vogliamo allontanarci, e non solo una cosa: nella maggior parte dei casi, le nostre rinunce nascondono paure più ingenti, ma noi le soffochiamo dentro il cassetto della biancheria  intima o nella scatola delle scarpe.
Sì, perché… alzi la mano chi riesce a dire, del tutto e per sempre, basta. Confesso per prima: sono stata ad un matrimonio, sabato, e mi sono sfondata di alimenti grassi come la catena della bicicletta. Ho ingollato anche due fette di torta nuziale, e a benedire la dieta.
Vorrei proprio sapere se Maggiolina si è alzata per tempo, oggi, al ritorno da una rilassosa vacanza al mare, e se Yaia non ha fatto neanche un aperitivo, la settimana scorsa. A riguardo, posso rispondermi da sola, perché mercoledì io ero con lei in un noto bar del paese. Quanto a Glade, i suoi contatti con gli uomini si limiteranno anche a un saluto tra colleghi e a una stretta di mano, ma la sua astinenza durerà davvero un intero mese?
E poi, infine, perché ci siamo poste questi limiti? Da cos’è che vogliamo scappare? Le calorie, il traffico, l’alcol, il fumo… la paura di morire ci spinge a vivere a metà?
Svolta.
Non penso sia così. Nessuno vuole morire presto, è chiaro, e mettere da parte un po’ di cattive abitudini non è uno sforzo sovrumano a confronto dei guadagni in termini di salute. Il guaio è che noi diventiamo maniache. Allo stesso modo in cui rinunciamo a sesso, pizze e storie senza senso, ci tuffiamo a candela dentro piscine piene di trombamici, verdure, uomini-palliativi, dimenticando cosa vogliamo veramente. Prendersi una pausa da noi stesse, dalla vita reale, sembra così facile quando si trovano delle emozioni-placebo: tutto ciò che non fa troppo male appare splendido, e tutto ciò che media i nostri isterismi ci rassicura quanto la cura per una malattia rara.
Io non so se questi sono tutti inganni a cui ricorriamo per essere meno sole, meno deboli, meno arrabbiate. So solo che per tutto esiste una giusta misura, solo che è molto difficile capire quale è giusta per noi. Scoprirlo sarà la croce e la delizia di ogni donna della mia generazione –problema che fino a settant’anni fa non si poneva- e che spero movimenti anche la vita delle nostre figlie e pronipoti, se ne avremo.

Un’esistenza limitata, senza un po’ di buon cibo ed un bel po’ di amore, è una tristezza unica. Ma per arrivarci bisogna affrontare i propri demoni. Anche quelli che avevamo sigillato con tanta cura, in fondo al cuore, e coperto con le nostre manie.