martedì 25 novembre 2014

Bocca aperta


Una delle caratteristiche delle donne del mio paese è che non chiudono mai la bocca.
E’ chiaro: abbiamo due grandi passioni, qui. Mangiare e parlare. Tanto. Di tutt’e due le attività.
Sembra che, anche in tempo di guerra, quando sarebbe stato meglio (o meno rischioso) tenere il becco sigillato, le donne di questi luoghi ci tenessero a far sentire la loro voce, litigando con le signore delle fazioni avversarie, aiutando i soldati alleati, portando rifornimenti sulle colline. Militando.
In epoche più remote, invece, quando la storia si confondeva con il mito, le donne erano talmente vessate dalle attenzioni non sempre gradite di dei e satiri da doversi trasformare in piante o corsi d’acqua, al fine di sfuggire alla violenza. Accadde a Dafne, divenuta albero d’alloro per scoraggiare Apollo, e ad Aretusa, mutata in fonte per non dover più subire il corteggiamento pressante da parte di Alfeo… E queste poverette erano pure ninfe!
Noi comuni mortali non abbiamo il potere di attuare una metamorfosi per dimenticare o cancellare i nostri problemi –ma, personalmente, se dovessi scegliere, vorrei essere un gatto. O una corrente d’aria. Non abbiamo nemmeno la tempra delle nonne, che sfidavano demoni ben più contingenti e pericolosi di quelli attuali. Eppure viviamo anche noi situazioni che ci fanno stare male. Yaia è senza contratto. Maggiolina soffre di scarsa autostima. Glade non riesce a prendere in mano la sua situazione sentimentale. Anita è stressata. Sole detesta il suo ambiente di lavoro. Una Persona Che Conosco ha delle brutte coliche ogni volta che rimane delusa. Ed io ho una fresia che sta cercando di buttarsi giù dal mobiletto, tanto le fa schifo vivere in casa mia.
Epoche diverse, difficoltà di natura diversa, ma il dolore è sempre dolore, anche se cambia forma, e dimensioni. Ed io credo che l’arma migliore che ci sia stata data per combatterlo sia la comunicazione. Matilde Serao insegnava a leggere alle giovani contadine in cerca di giustizia. Noi donne istruite del Ventunesimo secolo possiamo usufruire di vantaggi inimmaginabili. Le parole, la voce, la diffusione delle notizie.
Perché è così difficile dire apertamente quello che vogliamo e che non vogliamo? E’ così forte la paura di essere respinte, giudicate, denudate, ignorate? Ma non è proprio per questi motivi che dobbiamo parlare, per evitare giudizi, ignoranza e violenza?
Fino a che non apriremo le nostre bocche, nessuno capirà da che parte stiamo. E saremo costrette a tramutarci in ramoscelli e pozzanghere. E’ così che vogliamo scrivere la nostra leggenda? Stanca di soffrire, diventò una folata di vento fastidiosa.
No, grazie.
Io preferisco esprimermi.

Sarà solo una prerogativa delle donne del mio paese, ma a noi no piace tenere la bocca chiusa. 

mercoledì 19 novembre 2014

La società delle Conoscenti




Una volta, a ridosso di una certa guerra, una donna di nome Virginia ideò la creazione di una società detta delle Estranee, nella quale potessero riunirsi tutte le donne contrarie al conflitto.
Mi permetto di travisare questa magnifica ipotesi per abbassarla al livello delle nostre attuali esigenze, e me ne prendo la responsabilità –devo, date le altissime premesse: la donna fautrice delle Estranee era Virginia Woolf e la “certa guerra” era la seconda guerra mondiale.
Certo: non c’è paragone tra quello che dovevano affrontare le donne ai tempi del conflitto e ciò che viviamo noi, oggigiorno, con i nostri diritti a portata di mano –il voto, lo studio, la libera pratica di una professione e la libera scelta di un compagno…  Eppure, in qualche modo, sempre di guerra dobbiamo parlare. Quella presente, forse, è ancor più di trincea. Con la differenza che, noi, la trincea, ce l’abbiamo nella testa.
Per la paura di perdere i loro diritti, o un uomo, o del tempo (infine: per la paura), noi donne ci siamo spesso rinchiuse dentro una prigione mentale in cui il nostro ruolo è ancora ben definito e dove torniamo ad essere mamme, orfanelle assurte a principesse, addomesticate. Quando sentite che sta per succedervi qualcosa del genere, ed è qui che rivisito, da vera blasfema, l’idea di Virginia, cercate la compagnia di un’altra donna. Magari di un’amica che non sentite da un po’, una che chissà, non mi risponderà nemmeno... La società delle Conoscenti è già formata ed aspetta solo nuovi membri; l’unica clausola è che bisogna avvicinarvisi di propria volontà, ma non se ne verrà mai respinte. Le donne fiutano quando un’altra donna è in difficoltà, e l’aiutano in vari modi, tra cui:
-i drink
-le telefonate
-le camminate furiose, lamentandosi e sparlando di altre donne più attraenti
-l’ospitalità in casa propria
-i consigli brutali
-la condivisione dei film preferiti
-il gelato
-il sostegno economico
-il trasporto in vari luoghi, in caso di necessità
-lo scambio di libri
-la vivisezione delle relazioni e dei problemi che comportano
-il prestito di vestiti, sempre all'ultimo momento
-gli sfoghi per una brutta settimana di lavoro
-le versioni di latino modificate
-i drink.

La società delle Estranee nasceva dal desiderio comune delle donne di manifestarsi lontane dalla guerra. La società delle Conoscenti rende noto che le donne, nell'affrontare la guerra della propria vita e del proprio ruolo, non sono sole.
Sono luna, stelle, nuvole…



martedì 11 novembre 2014

Zanna Bianca è per sempre

Ovvero: Bambine che leggono, bambine che capiscono




Al ginnasio, quando la professoressa chiedeva una figura etimologica, tra i  miei compagni ce n’era uno che rispondeva sempre:”Vivere vitam”. A lui piaceva quella.
Io invece avrei voluto rispondere:”Leggere un libro”, ma c’erano due problemi che m’impedivano di farlo: la mia colossale ignoranza in materia di lingua latina ed il fatto che la figura etimologica da me ideata era sbagliata. Avrebbe dovuto suonare così, piuttosto: “Leggere una lettura”. Che però sarebbe risultata più come una specie di tautologia. Infine, un ‘meno’ assicurato.
Ma per me è la parola “libro” che sta alla lettura come la parola “vita” al verbo vivere. Ed è un modus vivendi (poi ho recuperato, col latino) caratteristico di tutta la mia esistenza, a partire dall’infanzia. Mi sono messa a pensare ai miei compagnucci delle scuole elementari: leggevano quasi tutti. Ricordo un gran rigiro di libri d’ogni genere, tra noi, e addirittura una mini biblioteca in classe, posta dentro un armadietto in cui regnava il caos dell’intero universo. Credo di aver sempre associato il concetto di “biblioteca” a quello spettacolo della natura, per cui i bambini trattano i libri come cose vive. E la situazione stava bene a tutti, femmine e maschi. Leggevamo le stesse storie: non c’erano libri sul calcio per i maschi e sulla moda per le femmine. Siamo passati tutti quanti per Pollyanna, Il giardino segreto, La piccola principessa, Capitani coraggiosi, Il richiamo della foresta, Ascolta il mio cuore ed altre decine di titoli senza mai fermarci a pensare se fossero “da maschi” o “da femmine”. Erano storie, e noi ne eravamo assetati.
Crescendo, ho notato che la schiera dei lettori con il cromosoma ‘xy’ si sfoltiva tristemente, benché –ne sono certa- non si trattasse di un fatto genetico. Il primo che prova a dirmi: “Sai, è normale, le ragazze leggono di più perché ci sono portate, è un’attività tranquilla che si può fare in casa e che si sposa bene con la loro indole riflessiva”… lo ficco in un baule e lo spedisco in un luogo esotico lontanissimo, come Edgar ne Gli Aristogatti. La lettura non si addice alle donne perché sono più tranquille: si addice loro perché, per lungo tempo, è stata l’unica cosa che potevano fare solo per se stesse. Magari nascoste, magati velocemente e in luoghi scomodi… sempre immaginando di tuffarsi in quelle avventure, di essere l’eroe, di diventare, per un paio d’ore, qualcuno che vive davvero la propria vita. La lettura era un’attività… nel senso che ci dava modo di essere attive, nel momento in cui ci veniva richiesto di rimanere statiche. Fai la brava, ordinava il papà, e noi …via, sotto le lenzuola con una luce da esploratore schiacciata in fronte, a leggere Edgar Allan Poe fino alle due di notte, quando la paura e il sonno prendevano un’unica rassicurante forma di guanciale.
Un’evasione in piena regola, eppure ad ogni nuovo libro a noi sembrava di tornare dentro il nostro vero “io”, di capire un po’ meglio chi eravamo e cosa volevamo fare della nostra esistenza. Da qualche decennio, per fortuna, e grazie alle tante donne che hanno combattuto per questo, i libri non erano più zeppi di modelli di bambine e di ragazze per bene, votate al sacrificio e alla cura della famiglia. Ora le protagoniste che incontravamo erano dinamiche, intraprendenti, forti e creative, ei protagonisti, a volte, erano teneri, insicuri, emotivi. Quelle che venivano considerate caratteristiche di un sesso o dell’altro si invertivano, mischiavano, perdendo la loro peculiarità di genere.
Ed ecco che, dalla lettura di Pippi, di Stargirl, di Violante e Cosimo mi sono uscite Yaia, Glade, Maggiolina, Anita, Sole e tante altre, con lavori duri o senza lavoro (altrettanto duro), legate alla famiglia, fuori casa, autiste arrabbiate di lunedì mattina, cuoche nella media, ancora schiave dei tacchi e del make up, ma lettrici, nonostante tutto.
Ci sarebbero tantissime cose da dire sulle donne che conosco e sulle bambine che erano. Preferisco però fermarmi a pensare a quanto erano forti e al fatto che, grazie a chi ha messo loro in mano un libro, hanno sviluppato quell’animo indomito ch’era in potenza nella loro personalità. Quanto a coloro che sono bambini e bambine adesso e a  ciò che possiamo fare per loro, dico che a scuola non c’è più l’armadietto pieno di libri: rimettiamolo. La sera, per far addormentare figli e nipoti, non accendiamo la tv davanti ai loro occhietti stanchi. Quello non è guardare veramente: è rimanere ipnotizzati. Perché non accompagnare nel sonno una bambina leggendole una storia? Farà sogni meravigliosi e domani, forse, avrà voglia di vivere la sua vita come la mamma le ha letto il libro.

Ai compleanni non si regalano più libri, ma giochi inutili che vengono accantonati dopo pochi gironi: al prossimo compleanno, regaliamo a un bambino Zanna Bianca. Zanna Bianca è per sempre.

martedì 4 novembre 2014

Che classe!



Alla fine di questa settimana andrò alla tradizionale festa di classe che si tiene ogni anno nel mio ameno paese.
Coa’è una festa di classe? E’ una gaia rimpatriata tra persone che hanno la stessa età, rimpatriata dalle seguenti caratteristiche: di anno in anno, i partecipanti si sfoltiscono e la spensieratezza va a farsi benedire man mano che ci si guarda attorno nel tavolo.
Perché, cari amici vicini e lontani, quando si prende parte alla classe è logico tirare un po’ le somme e prosi delle domande comode come un materassino sgonfio. Per esempio: la mia annata è composta di un centinaio di persone, più femmine che maschi. Di queste cento, una decina sono sposate. Mezza dozzina convive. Altre quattro o cinque persone hanno perpetrato la razza “ottantaseina” con dei figli, tutte femminucce (girls power continua). Un terzo di noi sono laureati. Di metà, non ho notizie certe.
Ora, prendete una manciata di trenta persone nel mucchio che vi ho descritto, gettatela in un ristorante e buttate via la chiave per un’intera serata. Cosa diavolo può succeder?
Oddio, il peggio è che ci ignoriamo o che un capo del tavolo spettegoli dell’altro capo mentre la cena è ancora in corso. Il meglio è che ci si diverta e si faccia nostro il motto La classe non è acqua, ma vino, come spesso è accaduto nelle edizioni precedenti. Il top dovrebbe raggiungersi con il canto dell’antico ritornello che chiama ad alzarsi le persone nate in gennaio, poi in febbraio, poi marzo… fino ad arrivare a dicembre, costringendole a omaggiare il coro con un brindisi (eufemismo).  Dopo due giri di questa canzone, il ritornello diventa un rintronello e si alzano a febbraio anche quelli nati a ottobre.
Per prepararsi a una serata così, bisogna superare anni e anni di complessi adolescenziali nei confronti delle ragazze magre e, in generale, dei ragazzi. I complessi relativi ad essi si possono facilmente risolvere pensando che a loro non importa un calippo di niente se una è gnocca o no: il requisito essenziale è che sia una donna, per tutto il resto ci sono i porno.
Quanto alle magre, rimedieremo con dei vestiti carini e con dei mantra interiori che ci costringeranno a sorridere e salutare e dire, con la faccia di bronzo:”Anche tu qui! Ti trovo bene!”, mentre rimpiangiamo di aver lasciato a casa un cuscino adatto al soffocamento.
Bene, e cosa ci diremo per tutta la sera? Da raccontare non c’è moltissimo: se resti in paese, la tua vita è di dominio pubblico, manco fossi Belèn (magari fossi Belèn). Forse è per questo che si beve molto: per superare l’imbarazzo.
No. Io credo che si beva molto perché per una maledetta volta, nella maledetta vita, magri o grassi, ricchi o disoccupati, sposati o single, ci si ritrova tra facce conosciute, tra amici: quelli della classe sono gente che vedi da quando la mamma ti allacciava ancora le scarpe e con cui hai condiviso maestre, bravate, aranci e limoni (mi sembrava brutto scrivere solo limoni). Andare alla classe è una garanzia di divertimento, almeno per qualche ora, almeno per una notte; la situazione ha del tragico, se si contano i dispersi e si pensa che è già il decimo compleanno della festa, ma anche del comico e del romantico, considerando gli aneddoti degli anni passati e i ritorni in autobus mano nella mano con chi non ti aspettavi. La prima volta che sono stata alla classe non era fidanzata con l’Architetto Sexy e così ho flirtato per tutto il tempo con un ragazzo, ma alle quattro di mattina, in viaggio verso casa, mi sono alzata dal mio sedile ed ho cercato lui, mio marito. Era uno straccio, come tutti d’altronde, ma io mi sono seduta lì accanto e forse è stato allora che mi sono chiesta:”Sarà solo un amico?”.
La classe, insomma, è un salutare bagno nel passato che ti fa capire un po’ di più chi sei e dove diavolo stai andando, in un catartico momento di convivialità estrema insieme a qualcuno che non ti rinfaccia la sbronza, il giorno dopo.

Niente da dire: che classe, il 1986.