Come tanti di voi
sanno, è da quando ero alta un metro e una caramella che desidero fare la
scrittrice. Non solo: l’ho proprio deciso, sentendolo nella mia natura, ed ora
ho la prospettiva, in lontananza, di poter dare vita alla mia vocazione.
Ancora non vedo se si
tratti di un miraggio o di qualcosa di reale: so solo che gli occhi non sono
affidabili e che credo di più in ciò che sento.
La prima volta che ho
partecipato a un concorso letterario nazionale è stato sette anni fa: si
concorreva con un romanzo dedicato alle donne ed io vi passai sopra,
letteralmente, notti e giorni travagliati, perché nel frattempo stavo
affrontando un passaggio di indirizzo all’università. Forse è stato in quei
momenti che mi sono resa conto davvero di quanto penosa possa essere la vita
emotiva e neurologica di chi vuole
scrivere! Inoltre, com’era scontato, non vinsi il concorso. La mia scrittura
era così acerba che sarebbe stato più gradevole versarsi dell’aceto negli occhi
che leggere dieci pagine del mio romanzo.
Però fu il primo.
Dopo quella storia, ne
vennero tante altre; tanti concorsi mi hanno tenuta sveglia quando mi sembrava
che l’intero universo stesse russando alle mie spalle, e tantissime volte
(quasi il cento per cento) quello che scrivevo non era abbastanza per essere
considerato, giudicato, letto. La pubblicazione era una chimera. Ormai, speravo
solo che mi venisse data una risposta, come i cani che scodinzolano al semplice
sentore della presenza del padrone. (Caspita, mi sono appena paragonata a un
cane; dovrei parlarne con qualcuno, n.d.a.)
Ci sono stati momenti
di grandissima pena, momenti in cui credevo di poter accettare le critiche
mentre mi ritrovavo, poi, a piangere di nascosto; in altri casi, il silenzio
era così chiaro e semplice da non darmi nemmeno le lacrime in cambio. Ma non
c’è mai stato sconforto. Lo giuro. Ogni critica si trasformava presto in un: ancora. Ogni porta chiusa diventava un:
comunque esiste una porta. Come per un amore che non può smettere di bruciare,
il mio cuore mi diceva sempre: ancora.
E così è stato. Ho
provato di nuov, di nuovo mi sono messa in fila alle Poste, tra le signore che
si lamentavano dell’attesa e i loro amici del 1914 che si azzardavano a
sbirciare (ancora) quelle caviglie da ragazze amanti del nylon –un materiale sexy,
tutto sommato. Ho passato tante ore ad immaginare le loro storie, per poi
essere improvvisamente risvegliata dalla chiamata del mio numero: toccava a me
–bollettino, pesata, timbro… A chi lo
mandiamo, stavolta?
L’uomo delle poste mi
diceva sempre: se vinci, ne voglio un
po’… Mi aiutava a bomba con i bollettini scritti in piccolo!
Ecco, infine. Qualcuno
mi ha detto sì. Possiamo lavorarci.
Se tuo figlio vuole
fare lo scrittore, cerca di dissuaderlo. Usa pure lusinghe e minacce d’ogni
sorta; se persevera, mandalo da me: cercherò di dissuaderlo con tutti i mezzi a
mia disposizione, compresi il sequestro e il digiuno (tanto ci sarebbe passato
lo stesso). Se tornerà ancora più convinto, mandalo di nuovo da me: brinderemo
insieme al nostro triste destino.
Meglio di una guerra,
di una malattia, di un lavoro pesante: certo.
Una lotta continua, una
patologia logorante, un lavoro durissimo: certo, pure questo è scrivere.
Esattamente come amare.
In entrambi i casi,
però, quel masochista del cuore ignora il dolore e ripete una semplice parola: ancora.
Un disco rotto, un
allenatore senza pietà, un coro da stadio, un marito insistente, il fraseggio
di una canzone, il battito regolare di quel muscolo involontario: se siete
innamorati, che si tratti di un uomo, di una donna o di una passione, una sola
parola pompa nelle casse, ora e sempre.
AN-CO-RA.
Auguri, se avete deciso
di ignorarla.
Auguri, se avete deciso
di ascoltarla.
Non lo dire a me. Io faccio l'editore... ci sono passato anch'io, ogni giorno della mia vita.
RispondiEliminache figataaaaa!!!!! Grande Paolaaaa!!!!
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