Con il detonatore dentro
Mentre frequentavo l’università, ho deciso che non avrei mai
più fatto qualcosa a meno che non fossi io a volerla fare.
Il pensiero mi ha illuminato una mattina di febbraio, due
anni or sono, nel momento in cui il mio sedere ha perso ogni sensibilità a
causa del marmo freddo su cui l’avevo poggiato da circa un’ora –il tempo minimo
d’attesa che serve prima di essere ricevuti in segreteria.
Da noi, la segreteria universitaria apre alle dieci e dieci
del mattino, e ciò fa sorgere una serie di domande: dieci e dieci? Non è già abbastanza tardi, come orario, le dieci in
punto? Vi servivano proprio quei dieci santissimi minuti? Perché a me non sono
serviti dieci minuti in più per arrivare da un posto che ne dista cinquanta, in
autobus. Eppure alle dieci e dieci io sono qui, voi no, o strane creature a
mezzobusto anche note come segretarie!
Detto questo, quella mattina –ora che ci penso era il mio
compleanno- me ne stravo in fila con altri miliardi di studenti, desiderosi
come me di consegnare la tesi entro il termine stabilito. Dal mio gradino in
cima al biscione (non ero solo in orario, quel giorno ero arrivata in anticipo
di nove ore per accaparrarmi un posto decente) guardavo gli altri con la
tristezza nel cuore: tutti quei visi giovani, un po’ assonnati, arrossati per
la corsa o per il trucco appena messo, alcuni senza l’ombra di barba, altri con
improbabili piercing… Tutti loro avrebbero potuto essere altrove, in quel
momento, a impiegare il tempo in un altro modo, senz’altro migliore che stare
appoggiati al muro di un ufficio consumando ore ed ore a fissare la nuca della
persona davanti a sé. Tutti noi avremmo dovuto
essere altrove.
Il pensiero fastidioso si rafforzò quando avvistai finalmente
lo sportello della mia facoltà. Erano passate davvero ore ed ore e io e la mia
compagna di sventura avevamo esaurito tutti gli argomenti di conversazione,
quindi il silenzio ci accompagnava nella fila mettendo in imbarazzo gli
studenti intorno a noi.
Ormai sull’orlo di una crisi di nervi, attendo (ancora) che
la segretaria chiami il mio turno. Lei non lo fa. Si guarda intorno, sfoglia un
fascicolo, sparisce dietro un separé a ridacchiare con qualcuno… Poi torna, e
vi giuro che sembra veramente intenzionata a chiudere baracca e burattini per
andare in pausa.
“Mi scusi…” azzardo.
La giovane donna in tween set lilla mi guarda stupita, come se le avessi detto “Vaffanculo”.
“Hai bisogno?” è la sua geniale domanda.
…
NO. NON HO BISOGNO DI NIENTE. TI FISSO PERCHE’ OGGI SEI UNO
SPLENDORE. SONO QUI IN FILA DALLA QUINTA ELEMNTARE SOLO PERCHE’ MI HANNO DETTO
CHE QUI CI LAVORI TU.
Ma certo che ho bisogno, brutta scema! Ho bisogno che tu
ritiri la mia preziosissima tesi, cosa che mi permetterà di laurearmi, ma
dubito che tu abbia un’idea di cosa ciò significhi.
Questi pensieri mi si sono agitati dentro per qualche
secondo, ma poiché la mamma mi ha insegnato a essere gentile (perché l’hai
fatto, mamma?) le ho risposto dicendole esattamente cose doveva fare: cercare
il mio nome nella lista dei laureandi, timbrare la tesi, metterla in archivio e
mandarne una copia al correlatore. Ah, anch’io devo firmare! Bene. Per fortuna
che ce ne siamo ricordati… Altrimenti credo proprio che il giorno della laurea,
se non avessi trovato il mio nome in elenco per mancanze burocratiche, sui giornali
si sarebbe parlato di studentessa
idrofoba; sbrana la commissione estraendo i cuori dal petto dei professori; è
nascosta da due giorni negli uffici universitari con gli scalpi delle
segretarie appesi alla cintola.
Ecco perché, da quel giorno, ho giurato solennemente a me
stessa che nessuno mi avrebbe più fatto sprecare una goccia del mio tempo,
nessuno avrebbe più vissuto dei minuti al posto mio, nessuno mi avrebbe più
trattato con sufficienza, e, soprattutto, nessuno mi avrebbe imposto, in un
modo o nell’altro, di fare qualcosa che non volevo fare.
Da allora ogni mattina mi guardo allo specchio, penso alla
giornata che sta per iniziare, e mi sono imposta una regola: chiedermi sempre
se quello che accadrà nelle prossime ventiquattr’ore mi soddisfa, mi realizza,
mi stimola e mi rende felice, altrimenti… meglio non farlo.
Lo so che al lavoro bisogna andarci, che ogni giornata comporta
responsabilità e paure da affrontare. Ma, giorno dopo giorno, le settimane
diventano mesi, e i mesi anni, e noi diventiamo vecchi ripetendoci davanti a
quello stesso specchio:”Oggi va così, ma cambierà. Devo solo resistere un altro
po’.”
Lo vogliamo davvero? Siamo certi che non stiamo consumando
momenti preziosi della nostra vita sperando che essa cambi? Che un qualche Dio
ci aiuterà?
La vita è così corta… Ottanta centimetri, afferma un mio
vecchio zio. Novanta, se si è molto fortunati. Quanto ci resta? A me, in
teoria, mancano cinquantasette centimetri, stando alle statistiche sulla
longevità femminile. E se, invece, mi restasse solo un millimetro? Oggi ho
scelto di condividerlo con voi, scrivendo. Perché non diventare padroni del
futuro, adesso? E’ una contraddizione in termini, è vero, ma potrebbe
funzionare. Potremmo reinventarci. Essere veri e non immagini riflesse di
quello che avremmo voluto essere da bambini, quando i nostri pensieri erano
incontaminati e autentici –quelli sì che erano progetti da seguire!
E magari ci incontreremo tutti oltre lo specchio, in una
realtà dove anche le segretarie non esistono più: sono diventate attrici di
teatro, poliziotte, cuoche, psicologhe, piloti d’aereo, fioriste.
Guarda quante possibilità meravigliose abbiamo, di brillare. E
il detonatore è dentro di noi.
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