martedì 13 agosto 2013

Qualcosa da offrire




Ci sono persone che hanno qualcosa, persone che entrano in una stanza e la invadono con un’aura pazzesca, che è quasi un odore.
Non sono donne particolarmente belle, non sono uomini vestiti particolarmente bene, ma non si può fare a meno di voltarsi a guardarli.
Queste persone, se si ha l’ardire di andare a conoscerle, segnano per la vita, ed anche se non le si rivedrà mai più esse avranno  offerto qualcosa di inestimabile, una lezione, una parola nuova, che ogni tanto verrà usata per rendere meno dura e meno amara l’esistenza da homo sapiens sapiens che conduciamo.
Per nostra fortuna, persone così si incontrano tutti i giorni, perché ognuno ha qualcosa da offrire. Bisogna solo aprire bene gli occhi, e, soprattutto, capire cosa abbiamo da offrire noi.

Ora come ora, sono in ferie forzate, se capite l’eufemismo.
E’ la prima volta che mi capita, da quando mi sono laureata, di trovarmi senza un contratto. Ventisei mesi filati da lavoratrice, al giorno d’oggi, sono un record, specialmente se sei appena uscito dall’università.
Quindi mi ritengo fortunata. Me la sono sempre cavata, sarà così anche stavolta. Tante persone vicine a me, però, non sono altrettanto ottimiste.
“E adesso, cosa pensi di fare?” è la domanda più diffusa. E la più indesiderata. Chiedere a un disoccupato cosa pensa di fare è come ricordare a un condannato a morte che gli restano pochi minuti di vita. Magari non è vero, ma la sensazione dell’interlocutore è la stessa –parlo per esperienza personale.
“Forse non stai cercando davvero…”, ecco un’altra sentenza da evitare quando ci si trovo al cospetto di persone che hanno appena perso il lavoro. Vi assicuro che, dopo quindici giorni di spiccioli e notti in bianco, la ricerca diventa più che reale. Anche troppo.
Infine, un cordiale saluto con gesto abbinato a tutti quelli che sfottono e/o infieriscono sulla momentanea “vacanza”: noi disgraziati nullafacenti non siamo ammessi, se non con scherno, alle conversazioni che includono le parole collega, ufficio, pausa pranzo e stipendio, e quando andiamo due giorni al mare siamo apostrofati come spreconi o come se dovessimo trascorrere ogni singolo secondo della vita –diurna e notturna- pensando alla nostra situazione (cosa che, in realtà, facciamo già).
Alla frustrazione si aggiunge, giorno dopo giorno, la rabbia, alla rabbia la certezza della sconfitta. Facile deprimersi o diventare rancorosi, disillusi, ulcerosi, eremiti, invidiosi, pazzi.
Una vita non sta bene da sola, a casa, senza far niente; figuriamoci se le viene rinfacciato di provocarsi tale condizione da sé.

Eppure io non demordo. Non voglio essere aspirata nel vortice, e infatti non riesco ancora a definirmi disoccupata. Se mi chiedono cosa faccio, dico che ho da poco terminato un incarico, anche se il poco si tramuterà a poco a poco in un mese, poi in due e alla fine dovrò ammettere che non ho un’occupazione.

La cosa strana è che ieri notte ho visto le stelle cadenti e non ho espresso alcun desiderio riguardante il lavoro. Non ho espresso alcun desiderio, punto e basta. Ero con i miei amici, la mia dolce metà, un bicchiere di vino e l’idea del blog che mi frullava per la testa. Niente di meglio. Si sa, la vita reale non può essere una perenne serata col naso all’insù, ma non può nemmeno consistere in un cartellino, un’abitudine, una immobilità grigiastra. Non per me. Il lavoro è una cosa così importante, che deve per forza coincidere con la nostra essenza: non si tratta tanto di trovare un’occupazione, quindi, ma di dare un senso a quello che facciamo durante il viaggio. Io posso offrire questo. Una notte felice. Amicizia, amore. Qualche parola da leggere. Se queste cose non valgono niente a livello economico, pazienza: è un problema mio e di come sono nata!

Ho deciso: d’ora in poi, quando mi chiederanno cosa sto facendo, risponderò che, purtroppo o per fortuna, sono libera.

3 commenti:

  1. Cara Paola, non sai quanto comprendo ogni tua singola parola. Il mio periodo da ragazza "libera", dopo avermi fatto tanto soffrire, mi ha anche insegnato che nessuno di noi è (solo) il lavoro che fa. Anzi, siamo tutti fatti di infinite sfaccettature e colori, spesso ben più interessanti della professione che ci appiccichiamo finita l'università. Ti auguro che le cose vadano come tu desideri e se in qualche notte insonne non sai a chi raccontare quanto sei arrabbiata, io ci sono; sveglia come te, pronta a fare un po' di ironia notturna:-). Andrà tutto bene!!! Lore

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  2. Da anni ormai, a chi mi chiede "COSA FAI?" o peggio ancora "COSA FAI DI BELLO?", io rispondo "VIVO, CHE ALTRO!". E questo a prescindere dal fatto che io lavori o meno, il fatto è che non sopporto tutti coloro che tendono ad identificare le persone con il lavoro che fanno, trovo infatti errato dire "sono un medico" o "sono un avvocato", la frase corretta è "faccio il medico" e "faccio l'avvocato" (poi magari SEI un pirla).

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  3. Questo è molto vero. Mettiamola così: mi piace dire di ESSERE una scrittrice anche se non FACCIO la scrittrice! Per me, il lavoro è una vocazione e non mi sono ancora rassegnata all'idea di farne uno qualunque, anche se mi dovrò abituare!

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