Un cugino psicologo di
Yaia le dice sempre:”Se vai al supermercato per comprare banane e poi chiedi
meloni, non te la prendere se torni a casa coi meloni.”
Decontestualizzata,
l’affermazione sfiora livelli di follia che neanche il Cottolengo, con tutto il
rispetto. Ma si addice molto, d’altra parte, ai discorsi imparanoiati su tipici
di una certa ora della notte, e tipici dii un certo gruppo di amiche. Il
messaggio è semplice: noi donne vogliamo delle cose, eppure ci ritroviamo con
altre, e ne siamo insoddisfatte.
Oddio, storia e
letteratura sono piene di donne frustrate a causa delle loro scelte: Emma,
Gertrude, Agrippina… Nel caso di Agrippina, credo che anch’io non avrei reagito
bene, partendo con un nome del genere per affrontare la vita. Fatto sta che
questi personaggioni eran di un’insoddisfazione da mangiarsi le unghie almeno
almeno fino alla falangina –non voglio neanche immaginare cosa sarebbe successo
se al tempo dell’imperatore Claudio fossero esistite le Phil Morris: probabilmente
l’imperatrice se ne sarebbe infilata una in ogni pertugio del suo corpo e se ne
sarebbe rimasta lì, stesa di fianco, a fumare dalla radice dei capelli e dalle
palle degli occhi iniettati di sangue per il nervoso.
Eh, sì, mie care: quelle
donne erano insoddisfatte proprio come lo siamo noi, anche se ci separano
pagine e pagine d’altri romanzi e secoli di inenarrabili avvenimenti: Emma
aveva sposato l’uomo sbagliato; dalla vita si aspettava di più. Gertrude s’era
fatta suora, ma dalla vita voleva di più. Agrippina era così scontenta delle
sue cose che pare abbia preso il toto per le corna ed avvelenato suo marito
(peraltro, l’unico decente della sua dinastia).
E noi, allo stesso modo,
diciamo di desiderare di più: il Vero Amore, un Lavoro, Figli… Eppure ci
comportiamo come se volessimo meloni, non banane. Le nostre precorritrici,
inoltre, erano quasi giustificate, essendo sottoposte ad ogni tipo di
prepotenza fisica e mentale: se tuo papà ti voleva suora e tu ti rifiutavi, ti
svergognavano alla stregua della peggior prosty, finivi in mezzo alla strada e
come minimo, per mantenerti da sola, ti toccava farlo davvero, il mestiere.
Non prendiamo nemmeno in
considerazioni l’idea di sposarsi con chi si voleva, o quella di prendere da
parte il proprio partner ed esporgli tranquillamente ciò che turbava l’animo,
come invece siamo libere di fare adesso. Adesso che le nostre madri hanno fatto
la rivoluzione femminista per noi, adesso che possiamo svolgere le stesse
professioni degli uomini –quelle da cui prima eravamo escluse-, adesso che il
mondo è aperto davanti a noi, con le sue scuola, i teatri, le altre donne, le
avventure e le rivoluzioni che non hanno potuto vivere Emma, Gertrude,
Agrippina, Messalina (bè, forse Messalina alcune le ha vissute, buona donna).
Cosa stiamo aspettando?
Perché ci ritroviamo, ancora, insoddisfatte? La crisi, la disoccupazione,
l’essere single o l’essere sposate… non saranno solo scuse? Scuse banali e
tristi per non andare nel mondo. Scuse per non affrontare la realtà, e cioè che
tocca a noi.
Rimanendo sedute sul
divano da mattina a sera a guardare stronzate da cerebrolesi stiamo offendendo
la memoria di chi ha combattuto perché noi potessimo laurearci ed indossare i
pantaloni senza esser tacciate di zoccolaggine; non inseguendo i nostri sogni
stiamo gettando nel cesso le vite di tutte quelle donne che non potevano
scegliere cosa fare di sé, del proprio talento, dei propri uteri e della vita
in generale.
Mi autorivolgo un appello:
Paola, svegliati. Decidi cosa vuoi e poi vai a prenderlo. E, al supermercato,
ordina banane. Io voglio di più, e voi?
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